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Mi chiedevo da ragazzo cosa significasse nella poetica dell’arte il non-finito. Nel regolare percorso della storia dell’arte scolastica, si arriva al periodo della vecchiaia di Michelangelo. L’accurata tecnica di levigatura del marmo, da lui perpetrata come un rituale sacro, comincia a scemare nei quattro Schiavi. Così vengono chiamati posteriormente i quattro uomini sbozzati grezzamente nel marmo, nell’atto di liberarsi da simboliche e letterali catene.

Il mio ricordo scolastico è sicuramente sfumato dal passare degli anni, ma sono abbastanza sicuro di aver legato indissolubilmente il concetto di modernità a quelle statue incompiute. Che poi, nella storia della critica d’arte ci sia sempre un certo ammicco verso la vaghezza, è una considerazione piuttosto ordinaria.

Il non-finito era ora descritto come necessità dell’artista, ormai famoso: doveva spostarsi da una città all’altra e da una commissione all’altra, e non poteva certo trascinarsi i manufatti con sé. In certi altri casi, e malricordo se fossero gli schiavi, il pezzo di marmo si rivelava inadatto per la scultura. Secondo la sua personalissima e celeberrima visione dello sbozzare, già nel blocco grezzo è insita la figura. Lo scultore come un fedele sacerdote/artigiano estrae significato già contenuto nella pietra che pare inespressiva. Quindi, era come se il blocco si rivelasse erroneamente interpretato.

Lo smaliziato fruitore vede l’errore scultoreo, o la necessità pratica di abbandono. O addirittura, ricordo certi compagni dalla pragmatica malizia, la pigrizia dello scultore troppo affermato.

La modernità si collocava, nella mia mente, a questo punto. Senza indulgere in interpretazioni a posteriori, o in critica d’arte, che non è il mio campo:

E’ incredibilmente moderno che un’opera abbandonata per incuria, fatta da un Nome e un Cognome rinomato, venga comunque conservata, discussa, tenuta viva.

Gli schizzi di Picasso, modernissimi e strapagati dagli acquirenti, sembrano molto più simili all’idea di opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica, come voleva Benjamin, piuttosto che alle ultra-venerate reliquie. Anche se all’occhio non esperto potrebbe risultare il contrario.

(continua dal precedente sul rapporto tra cultura aziendale e finanza)

In primo luogo, una cultura aziendale positiva ha buone ricadute sulla reputazione del brand. I clienti sono fidelizzati e motivati, così come i dipendenti. Ci sono diversi studi che provano i modo schiacciante come un alto livello di engagement dei dipendenti porti a una decrescita del turnover.

Infine, la giusta cultura aziendale promuove cambiamenti positivi con maggiore innovazione e nuovi prodotti, che possono stimolare la produttività o espandere la base di clienti di un istituto finanziario. 

A questo proposito cito di nuovo un articolo di Forbes in cui si rilanciano le parole di John Chambers, ex amministratore delegato di Cisco.

Chambers sostiene che “il 40-50% delle Fortune 500 non esisterà più entro un decennio”. Secondo Chambers, l’attuale crisi è un momento spartiacque in cui sopravvive solo chi ha le forze e le caratteristiche adatte per sopravvivere.

Anche se resta da vedere quanto saranno efficaci i documenti che consigliano alle istituzioni finanziarie e ad altri settori di adottare la cultura “corretta”, non c’è dubbio che una cultura positiva e innovativa sia fondamentale per il successo di qualsiasi azienda. È uno studio senza fine, come del resto prevede l’imprenditorialità e la consulenza di un certo livello.

A cultura aziendale cambia nel tempo, e il mondo dei prodotti finanziari non può rimanere indietro.

C’è un fatto accaduto questo settembre che vale la pena menzionare, se parliamo di cultura aziendale e finanza: la Monetary Authority di Singapore, una delle principali autorità di regolamentazione finanziaria del mondo, ha pubblicato due documenti che parlano di cultura. 

Il primo documento si concentra su nove risultati che l’autorità ritiene debbano essere raggiunti da tutte le istituzioni finanziarie, il secondo cinque risultati che le istituzioni finanziarie dovrebbero raggiungere per rafforzare la responsabilità e promuovere un comportamento etico.

Una cultura aziendale nuova

Welfare, benessere psicologico sul posto di lavoro, inclusività… La cultura aziendale vira negli ultimi anni sempre più decisamente verso un miglioramento di standard, ma anche verso una creazione di standard condivisi, orientati al benessere globale dei dipendenti e dirigenti e a un migliore bilanciamento vita/lavoro. 

Dall’intrattenimento all’industria tecnologica, le aziende si stanno riorientando verso nuovi standard lavorativi .

Quindi, perché concentrarci nello specifico sul settore finanziario?

“Cultura” come norme implicite

In un articolo su Forbes ho letto il parere di William Dudley, ex amministratore delegato della Federal Reserve Bank di New York. Dudley ha descritto la cultura come “le norme implicite che guidano il comportamento in assenza di regolamenti o regole di conformità”. 

Andrew Bailey, governatore della Banca d’Inghilterra, ha detto invece che la cultura è “ovunque e in nessun luogo”. 

Insomma, senza voler partecipare alla disputa medievale sugli universali, e quindi stabilire se la cultura esiste o meno, mi sento di assentire anche con Bailey: spesso non serve un codice scritto per affermare come una serie di comportamenti siano radicati in un gruppo sociale (in questo caso, in un ambiente lavorativo). Semplicemente, vengono messi in pratica.

Forse, e questo lo aggiungo io, il ruolo dell’arte e della letteratura è proprio questo, cogliere l’in-standardizzabile sotteso al modo in cui agiamo e ci comportiamo con i nostri simili.

Se è buona arte, senz’altro.Ma al di là di queste definizioni, vediamo come finanza e cultura aziendale coesistono e perché è fondamentale una loro interazione proficua.
(Continua)

Per quanto una persona conosca una lingua, ci sono termini che solo i madrelingua sanno pronunciare correttamente. Questa difficoltà si estende ad alcuni fonemi, gruppi vocalici o consonantici, ma quando parliamo di intere parole, allora esiste un termine specifico.

Cos’è lo shibbòleth

Esistono alcuni termini o intere frasi particolarmente complessi da pronunciare per il parlante non nativo, e si chiamano shibbòleth. Innanzi tutto, attenzione a non confondere lo shibbòleth con lo scioglilingua, difficile da pronunciare anche per i parlanti madrelingua. 

Il termine shibbòleth in realtà deriva dal secondo libro dei Giudici della Bibbia cattolica e significa in ebraico “spiga”. Ma ben più del suo significato è interessante il fatto che questo termine venisse usato come una sorta di parola d’ordine.

La storia

Infuria la battaglia tra Galaaditi ed Efraimiti.

Le armi sono quasi pari, il combattimento si svolge all’ultimo sangue, e alla fine i Galaaditi hanno la meglio.

Gli Efraimiti sono dunque in fuga, ma gli avversari non vogliono lasciarli scappare vivi.

Mentre gli Efraimiti stanno guadando il Giordano, i Galaaditi li bloccano chiedendo una parola d’ordine: il termine shibbòleth.

Impossibile da pronunciare per gli Efraimiti, che venivano così riconosciuti e uccisi durante la fuga.

Il ruolo sociale dello shibboleth

Può accadere che il parlante di una comunità linguistica sia totalmente all’oscuro del fatto di non saper pronunciare come si deve uno shibboleth, e questo evento può diventare macchiettistico e dare luogo a sipari divertenti.

In fondo l’imitazione degli accenti stranieri, di cui il nostro migliore cabaret è ricolmo, si basa principalmente sul fatto che ci sono shibboleth italiani impronunciabili per stranieri.

Nonostante la momentanea interruzione delle domeniche gratis, poi ripristinata da Franceschini nel settembre 2019, le visite dei musei italiani nel 2019 sono state in crescita rispetto al 2018.

Un boom a Pompei

La vincitrice indiscussa è Pompei: le presenze in più sono state 160 mila. Il totale di 4 milioni di biglietti è notevole, considerando le ondate di maltempo che ci sono state durante l’anno, e che hanno penalizzato tutti i siti turistici italiani.

Consideriamo che circa 4 anni fa i biglietti per Pompei erano 2,5 milioni.

Musei piccoli e periferici spesso penalizzati

Essere lontani dalle rotte del turismo può avere i suoi svantaggi. Così è stato nel 201 per i piccoli musei e le piccole gallerie, fortemente penalizzati dagli episodi di maltempo e della chiusura domenicale. A differenza delle grandi gallerie.

I numeri dei big

Perdono visite invece il Colosseo, che registra 100mila presenze in meno rispetto al 2018. 7,5 milioni di presenze totali per il monumento considerato il simbolo dell’Impero Romano, della Città Eterna, e da qualcuno dell’Italia stessa.

Gli Uffizi registrano 4,5 milioni di visite. Quest’anno sono state considerate in aggregato con il giardino di Boboli e Palazzo Pitti.

Questi tre, Pompei, gli Uffizi e il Colosseo, sono i vincitori indiscussi del 2019, per quanto riguarda le presenze.

Numero dei visitatori: non aumenti esponenziali

E’ diversi anni che gli aumenti sono esponenziali, ma il 2019 ha risentito delle due diverse attenuanti del maltempo e della chiusura delle domeniche.

Una nota per Matera: la cittadina ha registrato un 20% in più di visite, in seguito all’elezione di capitale europea della cultura 2019.

Sono ormai una triste realtà, le bombe sull’Iran. Il tweet di Trump del 4 gennaio sembra averlo confermato: siamo in un momento che passerà alla storia. In seguito al tweet l’opinione pubblica, ormai verificata principalmente dalla cartina al tornasole che sono i social, si è scatenata quantificando i danni culturali che una simile operazione avrebbe. 

Ebbene, l’Iran ha tesori culturali inestimabili. Inestimabili. Non solo culla della cultura persiana, di imperi millenari, di biblioteche che hanno salvato i nostri classici sepolti altrimenti sotto un oblio più che certo. L’Iran ha anche monumenti tuttora esistenti, scavi, siti, mosaici di incredibile valore, ma la stessa vita iraniana, a guardarla con gli occhi dell’antropologo, è di per sé minacciata drasticamente dallo spettro della guerra. Sempre che di spettro si possa ancora parlare.

Vediamo alcune delle bellezze più a rischio, indipendentemente dal tweet del presidente USA.

Ne fa un elenco il The Guardian

La prima è la splendida città di Persepolis, un complesso monumentale risalente al VI secolo a.C., progettato per stupire – con una vasta terrazza sopraelevata, grandi scalinate e palazzi e templi in marmo. Qui ci sono molte statue bassorilievi di tori, leoni, creature mitiche e raffigurazioni dell’impero achemenide. 

C’è poi la moschea di Shah Cheragh a Shiraz, traducibile con “Re della Luce”. All’esterno appare per quello che è, un mausoleo meta di pellegrinagigo internazionale. All’interno, la meraviglia: è interamente rivestito di intricati disegni geometrici di tessere di mosaico a specchio. 

Tre delle più antiche chiese della regione sono patrimonio dell’umanità dell’Unesco. La Cattedrale di Vank, vicino a Isfahan, è stata costruita dagli armeni spinti nella zona dallo scià Abbas I di Persia durante le guerre ottomane del XVII secolo.

Vista la nostra fascinazione per le opere architettoniche maestose, non si può non citare, seguendo il The Guardian, i ponti di Isfahan. Parlo dei lunghi ponti coperti dell’ex capitale iraniana, costruiti per lo più nel XVII secolo. Non tanto magniloquenti, piuttosto funzionalissimi: il ponte Khaju, lungo 130 metri, serviva da diga per controllare il fiume Zayanderud, ma anche per attraversarlo. Invece la sua navata centrale era un luogo di incontro pubblico ombreggiato.

Immaginavo che prima o poi nel bel mezzo di queste peregrinazini normative qualcuno avrebbe alzato pacatamente le antenne, chiedendosi: ma dove sta andando a parare?

In un blog che si occupa di cultura, ha in effetti senso chiedersi che ruolo abbia il giornalismo… Sì, ha senso, ma in termini diffusivi più che sostanziali. Il giornalismo, e il radiogiornalismo, stanno però alla diffusione della cultura, spesso, come il volantino sta al successo del locale notturno. Qualcuno si fermerà per provare il coktail più insolito millantato da quei quadratini di carta sempre più centimetrici che distribuiscono nelle zone della movida. Ma quanti, dico, quanti almeno che non frequentano già quell’intorno, andranno effettivamente nel bar pubblicizzato dal quadratino suddetto? Io potrei riferirmi a una fascia d’età che paradossalmente è più avulsa dalle logiche della carta stampata con intenti pubblicitari. Noi persone della mia età, diceva sempre un mio conoscente di una ventina d’anni meno attempato, tendiamo a spregiare la carta in una iper-correzione dovuta al nostro volerci omologare al digitale. Come a dire, non siamo digitalizzati a sufficienza, e vogliamo mostrare di esserlo. O meglio, direi io, come diceva Baricco parlando della barbarie: siamo profondi come istanze di base. Ci avviciniamo quindi alla digitalizzazione con la nostra abituale profondità, e vediamo il cubetto di carta come obsoleto, vintage. Invece dovremmo con la volatilità rapida dei “giovani” afferrare il volantino, cercarci la suggestione visiva e la promozione, come gli esseri umani ancora fanno con le immagini anche fisse.

Comunque, è fatta e rifuggo il giornalismo e il radiogiornalismo. Non penso che la promozione culturale possa passare solo da lì. Penso però che se parliamo di sovvenzioni statali, sia un OBBLIGO parlare dell’editoria in senso ampio. I libri, le case editrici. Quelle buone, che ancora cercano di riportare il classico sotto la migliore luce, quelle che ospitano i contemporanei quanto basta per non curarli troppo. Che su questi contemporanei attuano un lavoro di selezione professionale, e non emotivista. Io vorrei uno Stato che finanzi le opere d’arte buone, ben fatte, professionali. Anche se il criterio è difficile da trovare, ma penso che potrei proporre qualche buon nome per una ipotetica giuria. Per ora, tutto questo è utopia. Pura.

Sono a riportare un’indagine statistica sullo stato della conoscenza e dell’occupazione in Italia.

Non tutti abbiamo la fortuna di gestire sul suolo patrio un istituto di indagine e analisi statistica come Istat. Senza entrare troppo nel merito del perché faccio questa considerazione, ho letto da poco il Rapporto conoscenza 2018, e principalmente il capitolo 6, titolato “Gli strumenti e  le sfide per le politiche”.

Il rapporto

Alla capacità di creare conoscenza, alla sua diffusione nella popolazione e all’uso nella
vita personale e nell’economia sono associati numerosi elementi, di natura diversa, rispetto
ai quali le politiche possono avere un ruolo non trascurabile. (Fonte)

E quindi abbiamo delle voci come la creazione di occupazione qualificata (6.1) ma anche, necessariamente, la premialità dell’istruzione nelle opportunità di lavoro e di reddito (6.2). Lo stato dell’arte dell’istruzione è fondmentale per capire i bisogni di una classe dirigente artistica da formarsi, e non manca nemmeno il capitolo in merito (6.3).

Considerando la diffusione della conoscenza nella vita quotidiana delle persone, la disponibilità
e la fruibilità dell’offerta culturale e l’uso della cultura (6.4) sono strettamente
connesse. In quest’ambito, i giacimenti culturali e in particolare i siti del patrimonio
Unesco (6.5) costituiscono un asset con valenza anche economica diretta,
ma gli strumenti più consolidati sono rappresentati dalla disponibilità editoriale e la
lettura di libri (6.6).
Infine, tra gli elementi di natura sistemica, si annoverano le infrastrutture del sapere
– un buon esempio nel mondo digitale, Wikipedia (6.7), la creazione e lo sviluppo
delle imprese (6.8), in particolare negli ambiti tecnologicamente più avanzati, o
l’efficienza e la capacità formativa del sistema Universitario (6.9).

I commenti

Che dire, aspetto di finire la lettura per avere un commento sostanzioso. Già ne sto elaborando uno.

Se sui rapporti degli anni precedenti poco mi sono interessato se non per quanto riguardava gli aspetti salienti che la stampa rimbalzava, penso che quest’anno aggiungerò ai miei soliti report “privati” ottenuti da indagini sporadiche nel settore questa ulteriore panoramica.

A presto.

Non sono un amante della televisione, anche se ogni tanto mi capita qualche programma di approfondimento, oltre ovviamente ai telegiornali rubati nei luoghi pubblici.

La buona vecchia tv

L’aspetto folcloristico della televisione ha però sempre stuzzicato in qualche modo il mio interesse.

Forse il non avere troppo vicino a me esempi di degradazione dovuta al tubo catodico mi ha portato a una tolleranza che altri miei conoscenti non hanno: capisco, umanamente, che vedere ad esempio i propri genitori in completo abbandono sul divano, soprattutto se da quell’età nella quale il dinamismo comincia a venir meno anche per fattori meramente fisiologici, sia piuttosto sgradevole.

Il Pasolini dentro ognuno di noi

Quindi facilmente la mia posizione mi porta a osservare con una certa curiosità chi ancora dedica ore intere della propria vita alla televisione. Anche se ora è evoluta e non più tubo catodico, e l’on demad ne ha definito i contorni, e programmi più internazionali si fanno strada, resta a mio parere un passatempo noioso e abbastanza alienante.

Ho trovato sulle televisioni nazionali ottimi documentari. Anche sulle private, selezionando e sopportando la millesimazione dovuta alle continue pubblicità.

I quiz a premi

Una cosa che però esito ancora a capire sono i quiz a premi. Ecco, a proposito di questi, ne avevo un ricordo infantile, che non è stato aggiornato con una prova empirica continua. Quindi, mi sono ritrovato a ri-vederla dopo decenni, e poi ancora dopo altri, oggi.

Mi sembra di aver notato un particolare che lì per lì ho trovato davvero preoccupante: le domande di cultura generale sono quasi totalmente scomparse. Se prima l’aver frequentato un liceo classico metteva al riparo dagli scivoloni di un’ignoranza popolare, ora non è più così. Il gossip, mi sembra di capire, la fa da padrone.

E’ proprio vero che nessuno si bagna due volte nello stesso fiume.

D’altro canto anche la fiscalità ha inseguito l’arte per inseguirne il denaro sottostante, talvolta a buon diritto quando nasconde l’evasione, talaltro penalizzando un settore creativo che avrebbe invece bisogno di maggior fiducia e agevolazioni.

Così scrive Marilena Pirrelli a proposito del mercato dell’arte italiano. La trovo un’analisi molto lucida e comprensiva di tutti i fattori in gioco. Lei parla di “resistenze e esclusività”, riferendosi probabilmente alle sacche arenate dove la promozione non ha capito che si deve rivolgere a investitori generosi, ma anche, e soprattutto, fare rete.

Impresa culturale e creativa

Sembra che il networking, o il “fare rete”, sia la necessità prima alla quale deve votarsi ogni amministratore pubblico, ma anche ogni soggetto privato, per riuscire a intravedere uno spiraglio di successo.

È stato fatto un grande lavoro da parte della commissione Cultura della Camera che si è tradotto, dopo la falcidia della Commissione Bilancio, in una definizione. Sembra nulla ma in realtà è un passo importante: il riconoscimento delle Icc (Impresa culturale e creativa) non è cosa così scontata e rappresenta un lascito importante alla prossima legislatura. Con l’introduzione in Manovra poi di un credito di imposta, per quanto limitato, il segnale dell’importanza del settore culturale per l’economia nazionale diventa ancor più evidente.

Necessario cambiare la normativa

Questi fattori sono evidentemente di natura politica: la politica fa una scelta di campo, che è quella della promozione, e ricapitalizza le imprese che si dedicano alla cultura. Ma poi la normativa si deve adeguare a questi cambiamenti, e intervenire in senso logistico. Ecco che la maggior parte delle attuali leggi sulla promozione a valorizzazione culturale appartengono al periodo del Ventennio.

Alcuni provvedimenti

Qualche provvedimento positivo c’è, e li cita anche Pirrelli nell’articolo che ho riportato. Sono la legge 124 del 4 agosto 2017 , che vuole semplificare la circolazione internazionale dei beni culturali. In discussione c’è poi la legge sui delitti contro il patrimonio culturale. Tutti segnali positivi, ma bisogna attendere gli sviluppi normativi per capire se l’impatto sarà davvero rivoluzionario, com’è ora che avvenga.