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Mi chiedevo da ragazzo cosa significasse nella poetica dell’arte il non-finito. Nel regolare percorso della storia dell’arte scolastica, si arriva al periodo della vecchiaia di Michelangelo. L’accurata tecnica di levigatura del marmo, da lui perpetrata come un rituale sacro, comincia a scemare nei quattro Schiavi. Così vengono chiamati posteriormente i quattro uomini sbozzati grezzamente nel marmo, nell’atto di liberarsi da simboliche e letterali catene.

Il mio ricordo scolastico è sicuramente sfumato dal passare degli anni, ma sono abbastanza sicuro di aver legato indissolubilmente il concetto di modernità a quelle statue incompiute. Che poi, nella storia della critica d’arte ci sia sempre un certo ammicco verso la vaghezza, è una considerazione piuttosto ordinaria.

Il non-finito era ora descritto come necessità dell’artista, ormai famoso: doveva spostarsi da una città all’altra e da una commissione all’altra, e non poteva certo trascinarsi i manufatti con sé. In certi altri casi, e malricordo se fossero gli schiavi, il pezzo di marmo si rivelava inadatto per la scultura. Secondo la sua personalissima e celeberrima visione dello sbozzare, già nel blocco grezzo è insita la figura. Lo scultore come un fedele sacerdote/artigiano estrae significato già contenuto nella pietra che pare inespressiva. Quindi, era come se il blocco si rivelasse erroneamente interpretato.

Lo smaliziato fruitore vede l’errore scultoreo, o la necessità pratica di abbandono. O addirittura, ricordo certi compagni dalla pragmatica malizia, la pigrizia dello scultore troppo affermato.

La modernità si collocava, nella mia mente, a questo punto. Senza indulgere in interpretazioni a posteriori, o in critica d’arte, che non è il mio campo:

E’ incredibilmente moderno che un’opera abbandonata per incuria, fatta da un Nome e un Cognome rinomato, venga comunque conservata, discussa, tenuta viva.

Gli schizzi di Picasso, modernissimi e strapagati dagli acquirenti, sembrano molto più simili all’idea di opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica, come voleva Benjamin, piuttosto che alle ultra-venerate reliquie. Anche se all’occhio non esperto potrebbe risultare il contrario.

Ci sono molti registi famosi che hanno lavorato con attori non professionisti, spesso ottenendo risultati eccezionali. Ecco alcuni dei registi più noti che hanno adottato questa pratica:

Roberto Rossellini: Il regista italiano Roberto Rossellini è noto per il suo uso di attori non professionisti nei suoi film neorealisti, come “Roma, città aperta” (1945) e “Ladri di biciclette” (1948). Questi film hanno contribuito in modo significativo allo sviluppo del neorealismo italiano.

Vittorio De Sica: Un altro importante regista neorealista italiano, Vittorio De Sica, ha lavorato con attori non professionisti in film come “Ladri di biciclette” (1948) e “Umberto D.” (1952).

Jean Renoir: Il regista francese Jean Renoir ha spesso impiegato attori non professionisti nei suoi film, come nel celebre “La grande illusione” (1937). Questo film è stato uno dei primi a fare ampio uso di attori dilettanti.

François Truffaut: Il regista della Nouvelle Vague François Truffaut ha scelto di lavorare con attori non professionisti in alcuni dei suoi film più noti, come “I 400 colpi” (1959), che ha contribuito a lanciare il movimento.

Abbas Kiarostami: Il regista iraniano Abbas Kiarostami è noto per il suo uso di attori non professionisti nei suoi film, tra cui “Dove inizia il fiume” (1999) e “Il sapore della ciliegia” (1997).

Andrei Tarkovsky: Il regista russo Andrei Tarkovsky ha scelto attori non professionisti in alcune delle sue opere, tra cui “Lo specchio” (1975), che mescola finzione e autobiografia.

Lars von Trier: Il regista danese Lars von Trier ha lavorato con attori non professionisti in film come “Idioti” (1998), parte del movimento Dogma 95, che promuoveva l’uso di attori non professionisti e una produzione più grezza.

Cristian Mungiu: Il regista rumeno Cristian Mungiu ha utilizzato attori non professionisti in film come “4 mesi, 3 settimane e 2 giorni” (2007), vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes.

Aki Kaurismäki: Il regista finlandese Aki Kaurismäki è noto per il suo stile minimalista e ha spesso lavorato con attori non professionisti nei suoi film, come in “L’Uomo Senza Passato” (2002).

Gus Van Sant: Il regista americano Gus Van Sant ha lavorato con attori non professionisti in film come “My Own Private Idaho” (1991) e “Elephant” (2003).

Tra i registi più importanti della Nouvelle Vague, spiccano Jean-Luc Godard, François Truffaut, Eric Rohmer, Jacques Rivette, Claude Chabrol, Agnès Varda e Alain Resnais. Ciascuno di loro ha contribuito in modo significativo a questo movimento e ha sviluppato un proprio stile distintivo. Ad esempio, François Truffaut è noto per il suo approccio alla psicologia dei personaggi e alle relazioni umane, mentre Jean-Luc Godard è famoso per il suo stile sperimentale e le riflessioni filosofiche nei suoi film.

Film Iconici della Nouvelle Vague

La Nouvelle Vague ha prodotto alcuni dei film più iconici e influenti della storia del cinema. Ecco alcune opere fondamentali di questo movimento:

“I 400 colpi” (1959) di François Truffaut: Questo film è spesso considerato uno dei capolavori della Nouvelle Vague. Narra la storia di un giovane ribelle che cerca di sfuggire alle restrizioni della società.

“Alphaville” (1965) di Jean-Luc Godard: Questo film mescola elementi di fantascienza e distopia, esplorando la disumanizzazione della società moderna.

“L’Anno Scorso a Marienbad” (1961) di Alain Resnais: Questo film è noto per la sua narrazione enigmatica e le suggestive immagini, che sfidano le convenzioni narrative tradizionali.

“Il mio uomo” (1964) di Jean-Luc Godard: Questo film offre una riflessione complessa sul rapporto tra cinema e realtà, con Godard che si rivolge direttamente al pubblico.

“Zanardi” di Andrea Pazienza per Davide Enia, “Sotto il vulcano” di Malcolm Lowry per Franco Branciaroli, “I fratelli Karamazov” per Emma Dante, “Narratore delle pianure” di Gianni Celati per Nanni Moretti, “Oblio” di David Foster Wallace per Liv Ferracchiati e “Infinite Jest” per Antonio Latella sono alcuni dei libri che hanno maggiormente influenzato gli artisti teatrali della prossima stagione del Piccolo Teatro. Questi titoli saranno esposti nel foyer del teatro Grassi, anticipando il tema scelto per il 2023/24: “Il corpo delle parole”.

La fisica delle parole

Il direttore Claudio Longhi promette un’esperienza teatrale profondamente legata alla “fisica delle parole” nel cartellone della nuova stagione del Piccolo Teatro. I romanzi saranno il punto di partenza, iniziando con il ritorno de “Il barone rampante” (Grassi, 27 settembre-8 ottobre) di Italo Calvino, diretto da Riccardo Frati, per celebrare il centenario dello scrittore. Anche Marco Paolini farà ritorno con due serate dedicate al Vajont e il nuovo spettacolo “Boomers”.

La letteratura ispira anche il nuovo lavoro di Emma Dante basato su “Lo cunto de li cunti” di Basile, la rivisitazione di Fahrenheit 451 del collettivo Sotterraneo e il debutto alla regia al Piccolo di Claudio Longhi con “Ho paura torero” di Pedro Lemebel (2001), interpretato da Lino Guanciale, previsto per l’inizio del 2024.

Nanni Moretti si cimenta a teatro

Nanni Moretti debutterà nella regia teatrale con due commedie di Natalia Ginzburg, “Fragola e Panna” e “Dialogo”, riunite sotto il titolo “Diari d’amore” (Grassi, 14-26 novembre). Inoltre, Liv Ferracchiati, artista associato al Piccolo, porterà in scena un testo originale ispirato a “Il gabbiano” di Čechov, mentre Pascal Rambert proporrà “Durante”, il secondo testo del trittico pensato per il Piccolo. Infine, “Bidibibodibiboo”, scritto, diretto e interpretato da Francesco Alberici (vincitore del premio Ubu 2021 come miglior attore/performer), offrirà un ritratto critico del mondo del lavoro nell’era di Amazon.

Uno degli scogli principali a cui va incontro chi si avvicina al teatro per la prima volta è il tipo di recitazione. Abituati alla recitazione naturalistica e sommessa del cinema, spesso troviamo innaturale la declamazione che anche nel linguaggio comune designiamo come “teatrale”.

Vediamo il problema dal punto di vista del dibattito, e poi del dibattito attoriale con particolare attenzione alle opere di Shakespeare.

Le due scuole di pensiero e i successivi movimenti teatrali erano distinti e separati, anche se confusi con le tempistiche storiche e le somiglianze di stile. Di conseguenza, il passaggio a una forma più autentica di dramma sul palcoscenico tra la metà e la fine del XIX secolo è spesso considerato un unico periodo. Se il realismo e il naturalismo nel teatro sono due movimenti, quale dei due è nato prima? 

Una cosa è certa: i melodrammi esagerati e pieni di spettacolo dell’inizio e della metà del XIX secolo sono oggi definitivamente tramontati (anche se a molti poco avvezzi al teatro spesso non sembra così).

In termini di stile, le parole realismo e naturalismo sono spesso erroneamente usate per significare la stessa cosa. 

Sono simili, sì, ma non identiche. Alcuni studiosi si riferiscono al sistema di Stanislavski come premessa per la recitazione naturalistica, mentre altri si riferiscono a questo sistema per la recitazione realistica, giusto per citare un caso comune. La recitazione naturalistica nei drammi naturalistici è diversa dalla recitazione realistica nei drammi realistici. Le esigenze dell’attore sono diverse, sia per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi, sia per quanto riguarda gli scenografi, le proprietà e i costumi, sia per quanto riguarda il soggetto, che spesso è diverso.

Tecniche di Realismo e Naturalismo

Il drammaturgo norvegese Henrik Ibsen è spesso considerato il padre del realismo.

Qui i personaggi sono quotidiani, più afferenti alla commedia che alla tragedia greca (come vorrebbe l’aristotelica definizione). 

Il movimento realista nel teatro e il conseguente stile di rappresentazione hanno influenzato notevolmente il teatro e il cinema del XX secolo e i suoi effetti si fanno sentire ancora oggi.

All’inizio del XX secolo, l’America si è impadronita di questo stile di rappresentazione (realismo americano) e di recitazione.

Le ambientazioni dei drammi realistici sono spesso blande (deliberatamente ordinarie)

i dialoghi non sono amplificati per l’effetto, ma sono quelli di un discorso quotidiano. Inoltre, 

il dramma tende allo psicologico: la trama è secondaria e l’attenzione principale è posta sulla vita interiore dei personaggi.

Recitazione naturalistica

A questo quadro bisogna aggiungere la recitazione di tipo naturalistico, ovvero non declamatoria. Tra gli attori shakespeariani, questo è un dibattito molto diffuso: il crinale è tra il rischio di non piacere per eccessiva pomposità (fedele alla linea) oppure il tradimento dell’altezza del testo originale, pena di un’eccessiva semplificazione.

Il dibattito è ancora aperto, soprattutto su Shakespeare. Mi sentirei di dire che è opportuno, come in ogni ambito procedurale artistico, trovare un common ground. Ma soprattutto, lasciare il giudizio a chi già abilmente si occupa del ruolo di testimone di questo immenso drammaturgo: gli attori.

Continua dal precedente.

“Anche tu, Bruto?” (Giulio Cesare)

Quando Giulio Cesare si accorge che il suo amico Bruto è tra i cospiratori che tramano contro di lui, chiede il notissimo “tu quoque, Brute?”. Questa espressione viene ora utilizzata per indicare un momento di tradimento, spesso in uno scenario tragico o inaspettato.

“Sono venuto a seppellire Cesare, non a lodarlo”. (Giulio Cesare)

Questa classica frase tratta dall’elogio funebre di Marco Antonio per Cesare è ancora oggi un’espressione popolare. Denota una situazione in cui qualcuno finge di fare una cosa ma in realtà ha intenzioni ben diverse. Le persone usano ancora questa frase per rivelare le loro vere intenzioni quando cercano di uscire da una situazione difficile.

“Un cavallo! Un cavallo! Il mio regno per un cavallo!” (Riccardo III)

Re Riccardo III grida questa famosa frase durante la battaglia di Bosworth Field, dopo che il suo cavallo è stato ucciso sotto di lui. La citazione ora simboleggia il modo in cui diamo priorità e valore alle cose nella nostra vita. Ci ricorda che a volte dobbiamo fare un grande sacrificio per ottenere qualcosa che vogliamo davvero.

“Cosa c’è in un nome? Quella che chiamiamo rosa con un altro nome avrebbe un profumo altrettanto dolce”. (Romeo e Giulietta)

Giulietta sostiene che non è importante il nome di Romeo, ma piuttosto il suo carattere. Questo detto è ancora oggi comunemente usato per sostenere che la sostanza di una cosa è più importante del suo nome. Ci ricorda che giudicare una cosa dal suo nome può essere da ignoranti.

“La colpa, caro Bruto, non è delle nostre stelle, ma di noi stessi, che siamo subalterni”. (Giulio Cesare)

In questa citazione da Giulio Cesare, Cassio dice agli altri cospiratori di non dare la colpa delle proprie mancanze al destino. Questa citazione risuona ancora con le persone che si sentono frenate da qualche forza esterna o dalle circostanze. Ci ricorda che, in ultima analisi, siamo noi a controllare il nostro destino.

“Sii fedele a te stesso, e ne consegue che, come la notte il giorno, non puoi essere falso con nessuno”. (Amleto)

Polonio dà questo eccellente consiglio al figlio Laerte nell’Amleto. È un detto sempreverde usato per incoraggiare le persone a essere fedeli a se stesse, a seguire i propri sogni e a rimanere oneste in tutti i rapporti con gli altri. Spesso viene dato come consiglio di vita alle persone che cercano di conoscere se stesse.

 

Oggi vorrei coinvolgervi – o tentare di farlo – in un giochino shakespeariano. Ho pensato a quali fossero le citazioni rimasse più affisse nel nostro immaginario, e le ho volute riportare qui.

Non me ne vogliano i critici più seri, che ho cercato di accontentare prendendo seriamente il Coriolano. 

Rispondo a costoro come direbbe sir Toby a Malvolio ne La Dodicesima Notte:

“Pensi che solo perché tu sei virtuoso non dovrebbero più esistere torte e birra?”

Inizio.

Le citazioni shakespeariane più famose

“Essere o non essere, questo è il dilemma”. (Amleto)

Questa citazione dal soliloquio di Amleto è una delle battute più riconoscibili di Shakespeare. È la contemplazione della vita e della morte e se valga o meno la pena di vivere. È una domanda che ha pesato sulla mente di molte persone nel corso della storia, rendendola una frase particolarmente toccante per i secoli.

“Tutto il mondo è un palcoscenico, e tutti gli uomini e le donne sono solo attori”. (Come vi piace)

Shakespeare rivela in questa citazione che la vita è una rappresentazione teatrale per la quale tutti noi dobbiamo recitare. Ogni decisione che prendiamo, ogni azione che compiamo, fa parte del nostro ruolo nel mondo. Ci ricorda che siamo tutti attori nel grande schema delle cose e funge da metafora per il modo in cui interagiamo gli uni con gli altri nel mondo.

“O Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo?” (Romeo e Giulietta)

Immancabile. Il famoso lamento di Giulietta è usato oggi per esprimere il desiderio di qualcuno per un’altra persona. È una domanda a cui ci si può riferire perché simboleggia il desiderio straziante di qualcosa che sembra irraggiungibile. Ormai cliché romantico, questa citazione racchiude in realtà un sentimento sempiterno.

“Non è tutto oro quello che luccica”. (Il mercante di Venezia)

Il nobile Antonio dice questa frase a un altro personaggio, avvertendolo di stare attento alle apparenze. Questo saggio consiglio è ancora attuale. Spesso si commette l’errore di giudicare gli altri dall’aspetto o da ciò che possiedono, senza conoscere la loro vera natura. Questa citazione ci ricorda di fare attenzione quando si fanno supposizioni.

Piccole barchette di banconote: questa è la modalità che l’artista Carla Zaccagnini ha scelto per rappresentare il suo personalissimo concetto di inflazione.

A dispetto del nome, questa artista non è italiana, bensì di origine argentina, ma con una lunga permanenza in Brasile, e attualmente divisa tra Brasile e Svezia, dove insegna all’Accademia di Belle Arti.

Un incrocio di identità che qualcosa hanno in comune con l’inflazione: da un lato la Svezia, emblema di welfare e debiti in regola, dall’altro l’Argentina, Paese famigerato per aver dichiarato bancarotta per ben 9 volte. E infine, il Brasile, che cambia valuta in media ogni tre anni, il che secondo quanto detto dall’artista ai microfoni del The New Yorker dovrebbe rappresentare un’ulteriore spersonalizzazione del cittadino. 

In fondo, la valuta non è essa stessa simbolo di un Paese? 

Tralasciamo le considerazioni che si possono fare sulla “nostra” eurozona, dove l’immedesimazione con la nuova valuta forse non ha funzionato a dovere in tutte le fasce sociali. I sondaggi d’opinione del passaggio dalla lira all’euro ce li ricordiamo, come ci risuonano ancora nelle orecchie i proclami politici di chi avrebbe piuttosto rivoluto una valuta nazionale.

Non sempre le argomentazioni a suffragio di queste tesi erano convincenti, o quantomeno costruite. Spesso erano addirittura pressoché assenti, il che mi porta a ribadirlo: anche in questo caso, la valuta non era tanto una considerazione economica, quanto piuttosto un pungolo di nazionalismo, un rigetto dell’Altro, della centralizzazione da parte di un’autorità esterna. In poche parole, un particolarismo.

Ecco che quindi quest’opera che rappresenta l’inflazione in un maniera così visiva, con il non-simbolo, informalissimo origami della barchetta, è proprio questo: la messa in discussione del principio di nazionalità passa anche dalla celerità con cui una valuta nasce e muore, lasciando alle persone le energie prosciugate, e il desiderio di considerare la valuta non più rappresentativa del nazionalismo, ma pur sempre degna d’interesse, presente.

Che cos’è il teatro orgiastico se lo ricorda forse chi ha la mia età.

Erano i fervidi anni ‘70, quando la cultura teatrale sfociava dal suo avanguardismo ormai consolidato a forme di teatro spontanee, ma anche ritualistiche, spesso portate alla sperimentazione più estrema. Una di queste sperimentazioni più border line è quella messa in atto all’epoca – ma anche oggi – da Hermann Nitsch.

Chi era Hermann Nitsch

Venuto a mancare da poco, Nitsch fu pioniere dell’Azionismo viennese e popolò delle proprie performance controverse diversi teatri di tutta Europa, ma non solo. Concretamente si adoperò in diversi campi dell’arte, in linea con la sua idea di opera d’arte totale. Era infatti pittore, grafico, scenografo, scrittore e compositore.

Nelle sue performance sacrifici di animali, ferite, nudità, interiora lasciate all’aria aperta, contatti proibiti tra persone, oggetti e corpi. Quando nella Nascita della Tragedia di Nietzsche si legge la caratterizzazione dell’orgia bacchica, non si può che pensare a questa dimensione contemporanea che fu in grado di darle Nitsch con le sue performance. 

Non si contano le polemiche che il suo genere di spettacoli scatenava, all’epoca e anche oggi. Soprattutto in Italia.

Nonostante tutto, l’artista viennese aveva proprio privilegiato la nostra penisola per la propria arte, avendovi riscontrato un’apertura mentale ed artistica che nella sua Vienna non era stato in grado di percepire.

Esattamente negli stessi giorni, in Biennale dell’Arte a Venezia gli viene dedicata una mostra alle Officine 800 in Giudecca.

Teatro delle Orge e dei Misteri

Già l’accenno a Orge e Misteri dovrebbe farci suonare diversi campanelli di riferimento all’antichità classica. In sostanza, il teatro che Hermann Nitsch portava avanti (Orgien Mysterien Theater) ospitava performance di più giorni, sempre connotate da un’aura di grandiosità e di introspezione, a detta dei commentatori.

Il teatro era stato realizzato nel 1971 all’interno del castello di Prinzendorf in Bassa Austria, e l’ultima performance di più giorni era stata realizzata nel 1998. Proprio quest’anno si sarebbe dovuta riproporre una replica di quell’evento, durante l’estate.

Come vedere l’operato di Hermann Nitsch

Abbiamo un museo a Napoli, aperto nel 2008 dal gallerista Giuseppe Morra.

Invece la mostra in Biennale dell’Arte si intitola “20. malaktion” ed è gestita da Zuecca Projects.

La mostra raccoglie e ripropone la performance al Wiener Secession nel 1987 e consiste in 52 opere di painting action, tra cui il dipinto più grande che l’artista abbia mai realizzato durante la sua carriera – di 20 metri di lunghezza.

Se pensiamo a una scenografia ideale per la Salomè di Oscar Wilde certo non ci immaginiamo un cimitero monumentale. Eppure è proprio qui che si terrà lo spettacolo teatrale del capolavoro di Wilde: parlo del cimitero militare Germanico del Passo della Futa, al confine tra le regioni Toscana ed Emilia Romagna.

 Nella messinscena che si svolgerà qui canteranno la Soprano Stefania Renieri e l’arpista Annamaria De Vito.

La caratteristica principale di questa Salomè un po’ più magniloquente sarà l’assoluta novità della rappresentazione: si tratta di una messinscena itinerante, che è stata resa tale per consentire di scegliere una scenografia naturale per ogni diverso momento del dramma. La regia è di Filippo Frittelli.

Quando

Il 19 e il 26 ottobre alle 16.

Dove

Al cimitero militare Germanico del Passo della Futa.