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Piccole barchette di banconote: questa è la modalità che l’artista Carla Zaccagnini ha scelto per rappresentare il suo personalissimo concetto di inflazione.

A dispetto del nome, questa artista non è italiana, bensì di origine argentina, ma con una lunga permanenza in Brasile, e attualmente divisa tra Brasile e Svezia, dove insegna all’Accademia di Belle Arti.

Un incrocio di identità che qualcosa hanno in comune con l’inflazione: da un lato la Svezia, emblema di welfare e debiti in regola, dall’altro l’Argentina, Paese famigerato per aver dichiarato bancarotta per ben 9 volte. E infine, il Brasile, che cambia valuta in media ogni tre anni, il che secondo quanto detto dall’artista ai microfoni del The New Yorker dovrebbe rappresentare un’ulteriore spersonalizzazione del cittadino. 

In fondo, la valuta non è essa stessa simbolo di un Paese? 

Tralasciamo le considerazioni che si possono fare sulla “nostra” eurozona, dove l’immedesimazione con la nuova valuta forse non ha funzionato a dovere in tutte le fasce sociali. I sondaggi d’opinione del passaggio dalla lira all’euro ce li ricordiamo, come ci risuonano ancora nelle orecchie i proclami politici di chi avrebbe piuttosto rivoluto una valuta nazionale.

Non sempre le argomentazioni a suffragio di queste tesi erano convincenti, o quantomeno costruite. Spesso erano addirittura pressoché assenti, il che mi porta a ribadirlo: anche in questo caso, la valuta non era tanto una considerazione economica, quanto piuttosto un pungolo di nazionalismo, un rigetto dell’Altro, della centralizzazione da parte di un’autorità esterna. In poche parole, un particolarismo.

Ecco che quindi quest’opera che rappresenta l’inflazione in un maniera così visiva, con il non-simbolo, informalissimo origami della barchetta, è proprio questo: la messa in discussione del principio di nazionalità passa anche dalla celerità con cui una valuta nasce e muore, lasciando alle persone le energie prosciugate, e il desiderio di considerare la valuta non più rappresentativa del nazionalismo, ma pur sempre degna d’interesse, presente.

Che cos’è il teatro orgiastico se lo ricorda forse chi ha la mia età.

Erano i fervidi anni ‘70, quando la cultura teatrale sfociava dal suo avanguardismo ormai consolidato a forme di teatro spontanee, ma anche ritualistiche, spesso portate alla sperimentazione più estrema. Una di queste sperimentazioni più border line è quella messa in atto all’epoca – ma anche oggi – da Hermann Nitsch.

Chi era Hermann Nitsch

Venuto a mancare da poco, Nitsch fu pioniere dell’Azionismo viennese e popolò delle proprie performance controverse diversi teatri di tutta Europa, ma non solo. Concretamente si adoperò in diversi campi dell’arte, in linea con la sua idea di opera d’arte totale. Era infatti pittore, grafico, scenografo, scrittore e compositore.

Nelle sue performance sacrifici di animali, ferite, nudità, interiora lasciate all’aria aperta, contatti proibiti tra persone, oggetti e corpi. Quando nella Nascita della Tragedia di Nietzsche si legge la caratterizzazione dell’orgia bacchica, non si può che pensare a questa dimensione contemporanea che fu in grado di darle Nitsch con le sue performance. 

Non si contano le polemiche che il suo genere di spettacoli scatenava, all’epoca e anche oggi. Soprattutto in Italia.

Nonostante tutto, l’artista viennese aveva proprio privilegiato la nostra penisola per la propria arte, avendovi riscontrato un’apertura mentale ed artistica che nella sua Vienna non era stato in grado di percepire.

Esattamente negli stessi giorni, in Biennale dell’Arte a Venezia gli viene dedicata una mostra alle Officine 800 in Giudecca.

Teatro delle Orge e dei Misteri

Già l’accenno a Orge e Misteri dovrebbe farci suonare diversi campanelli di riferimento all’antichità classica. In sostanza, il teatro che Hermann Nitsch portava avanti (Orgien Mysterien Theater) ospitava performance di più giorni, sempre connotate da un’aura di grandiosità e di introspezione, a detta dei commentatori.

Il teatro era stato realizzato nel 1971 all’interno del castello di Prinzendorf in Bassa Austria, e l’ultima performance di più giorni era stata realizzata nel 1998. Proprio quest’anno si sarebbe dovuta riproporre una replica di quell’evento, durante l’estate.

Come vedere l’operato di Hermann Nitsch

Abbiamo un museo a Napoli, aperto nel 2008 dal gallerista Giuseppe Morra.

Invece la mostra in Biennale dell’Arte si intitola “20. malaktion” ed è gestita da Zuecca Projects.

La mostra raccoglie e ripropone la performance al Wiener Secession nel 1987 e consiste in 52 opere di painting action, tra cui il dipinto più grande che l’artista abbia mai realizzato durante la sua carriera – di 20 metri di lunghezza.

Se pensiamo a una scenografia ideale per la Salomè di Oscar Wilde certo non ci immaginiamo un cimitero monumentale. Eppure è proprio qui che si terrà lo spettacolo teatrale del capolavoro di Wilde: parlo del cimitero militare Germanico del Passo della Futa, al confine tra le regioni Toscana ed Emilia Romagna.

 Nella messinscena che si svolgerà qui canteranno la Soprano Stefania Renieri e l’arpista Annamaria De Vito.

La caratteristica principale di questa Salomè un po’ più magniloquente sarà l’assoluta novità della rappresentazione: si tratta di una messinscena itinerante, che è stata resa tale per consentire di scegliere una scenografia naturale per ogni diverso momento del dramma. La regia è di Filippo Frittelli.

Quando

Il 19 e il 26 ottobre alle 16.

Dove

Al cimitero militare Germanico del Passo della Futa.

Ho visto di recente l’ultimo film di David Copperfield di Dickens al cinema con Hugh Laurie nel cast. 

Un  “La vita straordinaria di David Copperfield” – questo è il titolo originale – pop e multietnico per il regista scozzese Armando Iannucci.

Nonostante il cognome, lo stile del regista rispetta appieno la sua origine british. In primis, per l’ironia costante e sempre sottesa che accompagna tutti gli sketch di questa divertente commedia. 

In secondo luogo, per un gusto quasi iconografico nella resa di personaggi unici nel loro genere, “parlanti” perché interpretano precise virtù morali. La madre di David, la remissività, la zia (Tilda Swinton) il rigore, il padre, l’algidità. 

 David è interpretato da Dev Patel, che già ci aveva regalato una performance densa di pathos in The Millionaire.

Un David Copperfield drammatico, ma divertente

Qui, il suo ruolo è sempre drammatico, ma ben più scanzonato. Sicuramente, molto più scanzonato rispetto ad altri adattamenti di Dickens, cupi e con tinte fosche.

Dickens al cinema: al di là del tetro

In realtà, Iannucci conosce l’autore del romanzo e riesce a trasformarne la tetraggine – perché si parla in fondo di una storia reale di reale sfruttamento minorile – in una vicenda tutto sommato divertente.

E la sfida era difficile, visto che il grande pubblico ormai associa Patel prevalentemente al ragazzino indiano di The Millionaire. 

Il rischio principale, se si può parlare di rischio, era quello di un Oliver Twist alla Polanski, con inserti di duro realismo. In realtà, l’ironia era comunque sempre presente nel grande autore inglese, e non è facile per i moderni percepirne il reale impatto sul pubblico dell’epoca.

In generale, possiamo dire che nella figura dell’eccentrico padre dell’innamorata di David Copperfield (l’alcolista, per intenderci) abbiamo una prova del fatto che siamo stati in grado di percepire una forte tragicità, senza rinunciare a un gusto per la risata genuina.

Quando i personaggi gli nascondono il vino, i bicchieri, o il cestino dei liquori, c’è una vera e propria pantomima di caccia al tesoro. In realtà, parliamo di un personaggio tragico, che tragicamente compromette il destino della propria famiglia per il suo problema di intemperanza.

Ma, in fondo, poco importa: quel che importa è la generica e piacevole sensazione, quando arrivano i titoli di coda, di aver visto tutto sommato un bel film. Multietnico, anche. Ma un bel film.

Quando ho parlato di scoperte archeologiche cinesi e dell’impatto che possono avere sulla politica, ingenuamente ho escluso l’Italia dall’equazione. O meglio, non ingenuamente, ma consapevolmente, per non creare inutili polemiche.

Però va detto, anche noi, quando si tratta di opere artistiche o archeologiche, abbiamo la “restituzione” facile.

Isernia – processo alla Francia che ci “restituisce” il bimbo paleolitico

Ho letto su un giornale cartaceo che la Francia, dopo aver detenuto per alcune analisi un dentino paleolitico ritrovato in località La Pineta a Isernia, lo rimanderà in Italia.

Dove merita di stare, e cioè nel Museo Nazionale del Paleolitico di Isernia. 

Ma cosa ci faceva un dentino di ominide vissuto 600mila anni fa in Francia?

Qui l’orgoglio campanilista e filologico dell’amante dell’appassionato dell’archeologia potrebbe farsi alcune domande. Ci sono forse dei laboratori più attrezzati? C’è un team di ricercatori specializzato in dentini di ominidi, e abbiamo inviato il reperto là per avere ulteriori prove sulla sua provenienza?

No, molto meglio.

La figura del paleo-artista

Non parliamo di cantanti di musica leggera stagionati, eppure ancora sul palcoscenico. No, il paleo-artista, anzi LA paleo-artista, si chiama Élisabeth Daynès ed è una grande esperta di restituzione artistica di immagini tratte dai reperti storici.

Serve un esempio?

Pensate all’australopiteco Lucy che avete visto nei libri di scuola dei vostri figli o nipotini. Probabilmente, quell’immagine è una fotografia dell’opera dell’artista.

Basandosi sul reperto archeologico, su competenze genetiche e su una padronanza dei materiali raffinata, l’artista ha preso un dentino, e ne ha fatto un bimbo vero.

“Tornare” è meglio di “restituire”

A questo punto è evidente che il concetto di “restituire” politicizza inutilmente quella che è stata un’imposizione da lockdown. L’artista ha finito la sua opera, il dentino ha viaggiato tra team diversi.

Quest’estate entrambi i manufatti sono stati riconsegnati al Museo Nazionale del Paleolitico di Isernia processo visibile dal 14 agosto dal grande pubblico, seguendo le normative di restrizione del Covid. 

Quindi, attenzione a capire il vero significato delle parole. E buona gita molisana!

 

Nella provincia cinese di Henan è aperto uno scavo archeologico, che cerca tra le rimanenze di un insediamento neolitico. Un dato molto interessante, soprattutto se consideriamo la straordinaria importanza che l’attuale governo cinese tributa a questo insediamento. Ma in generale, all’archeologia.

Cosa c’era in Cina, scoperte archeologiche di 5000 anni fa

Sembrerebbe, così dicono le autorità cinesi e anche diversi archeologi coinvolti, che nel sito siano state ritrovate tracce di civilizzazione dagli spiccati caratteri cinesi, risalente a 5000 anni fa. 

Le testimonianze scritte di cinese ci consentono di risalire fino a 3000 anni fa, e potrebbe risultare azzardato per noi stabilire una linea di continuità, e affermarlo in modo così plateale. 

Ma tant’è: sebbene 5000 anni fa non esistessero statue bronzee, come afferma un bell’articolo del The Economist, e nemmeno iscrizioni, abbiamo un fermaglio grande quanto un dito, intagliato in una zanna d’avorio.

Abbiamo abitazioni, resti umani, ceramiche intagliate. Diversi archeologi cinesi affermano che, sebbene non ci siano iscrizioni, anche il linguaggio delle ceramiche potrebbe un giorno essere interpretato. Alcuni vasi sono stati seppelliti in un ordine preciso, ricalcando la forma di costellazioni. 

Si può dire che non ci siano ancora delle testimonianze che ci fanno datare il sito con certezza, sappiamo solo che fu dominato dall’Imperatore Giallo. Una persona, una tribù, un’oligarchia? Non abbiamo molte informazioni a riguardo.

L’attenzione delle autorità

Il college cinese più prestigioso, la Peking University, consente a tutti gli studenti migliori di trascorrere un periodo di tempo qui, agli scavi. Diverse baracche per consentire agli archeologi di vivere con tutti i comfort sono nate negli anni, e i dignitari del Governo arrivano in visita quasi ogni giorno. 

Dopo la furia distruttrice di icone del governo di Mao, è nata un’ondata di revival per l’archeologia cinese, con intenti che a mio parere – e qui sottoscrivo l’articolo del The Economist – sono prettamente politici.

Come abbiamo fatto noi europei alla fine dell’800, quando le nazioni europee usavano opere d’arte e scoperte archeologiche per ribadire la propria supremazia, con la Cina stiamo assistendo a un fenomeno simile.

Sarà interessante quando la polvere ci sputerà fuori qualche reperto di valore.

La notizia è stata comunicata dall’Ansa e ha rallegrato un po’ gli animi abbattuti da questo finesettimana denso di cattive notizie. 

Riapre il museo Accorsi-Ometto

E il museo sarà a disposizione dei visitatori con collezioni finora inedite. È evidente che numerose gallerie, esposizioni e collezioni private avranno bisogno di darsi una rispolverata e di presentarsi a questa sorta di primavera un nuovo abito.

Se Botticelli aveva pensato a fiori, vento, fogliame e onde, noi dobbiamo adeguarci ai mezzi che l’umana nostra natura dispone. La collezione Accorsi-Ometto propone uno stupendo vassoio in tartaruga, con inserti in madreperla, oro e ottone. 

Realizzato a Napoli nella prima metà del Settecento, il vassoio fu donato da papa Benedetto XIV al marchese Leopoldo del Carretto di Gorzegno e Moncrivello.

Provò ad acquistarlo Ometto stesso, nell’ottica di riportarlo nei natio Piemonte, senza mai riuscire a concludere la trattativa. Il pezzo ha un valore di 300.000 euro, e il tempo ha fatto il suo corso, facendolo infine arrivare nel museo giusto in tempo per le riapertura.

Barocco, barocchissimo!

La Sala della arti barocche è stata la depositaria dell’onore. Qui si potrà vedere il prestigioso vassoio esposto, che accompagnerà il libro dei disegni dei gioielli dei Savoia-Carignano.

Il libro dei gioielli dei Savoia-Carignano

Una storia appassionante, che ha visto intrecciata alla storia del libro quella del colosso della moda D&G. L’avrebbero acquistato, se il vincolo a mantenere l’opera in Italia non li avesse fermati. 

Il libro risale al 1720-30 e riporta diversi disegni incredibili, a preludio della successiva manifattura. Sarà esposto aperto sulla pagina recante il disegno del Grande Collare della Santissima Annunziata.

Accanto, il Piccolo Collare, della seconda metà dell’Ottocento, appartenuto al conte Luigi Cibrario.

Un’occasione gratuita e stimolante per vedere le sale di una Fondazione che si annovera tra le più attive a Torino. È comunque meglio prenotare in anticipo.

Un giugno insolitamente fresco presenta la riapertura.

Timidamente le attività culturali fanno capolino, dopo mesi di sonno, di disperazione per gli operatori che con esse portavano a casa lo stipendio, e di vero e proprio dolore per impresari, organizzatori, direttori di teatri e musei.

Riapriamo

Constatare la riapertura dà sempre un senso di sollievo. Siamo così raramente in balia degli eventi, in questo mondo sicuro e privo di guerre, che non avremmo mai potuto pensare a una pandemia.

E va bene, a questo punto l’hanno detto in talmente tanti che la mia voce va solo a banalizzare quello che poteva essere il lirismo dei primi tempi. Ma una cosa è certa: non ci dimenticheremo di cosa vuol dire chiudere i battenti alla cultura.

La normativa

Per chi volesse, la normativa di riferimento è facilmente reperibile online (qui quella per la Lombardia). Presto ci abitueremo ad andare a teatro – quei pochi che hanno riaperto perché potevano permetterselo, quantomeno – muniti di mascherina. 

In quanto luoghi pubblici al chiuso, i teatri italiani avranno una inferiore incidenza di pubblico, per via del necessario distanziamento. E dal palcoscenico, si vedrà sotto di sé un esercito di mascherine.

Ma poco importa. La cultura riapre, e questo è quanto stavamo con trepidazione attendendo.

Era il 9 giugno 1950 quando la Pinacoteca di Brera riaprì sotto le abili mani di Fernanda Wittgens

Una data simbolica

Riapre oggi, senza ulteriori indugi, la Pinacoteca dopo il blocco dovuto al Coronavirus. Una data che richiama senza ombra di dubbio quella ufficiale, storica apertura dopo le devastazioni della guerra. C’erano voluti 5 anni di preparazione, recupero, restaurazione per riaprire dignitosamente e riportare l’istituto ai suoi precedenti fasti.

In realtà, a qualcosa di più, perché le vesti della Pinacoteca oggi, come nel 1950, sono radicalmente diverse rispetto al pre-chiusura. 

Cosa cambia con la riapertura della Pinacoteca di Brera

Gli ingressi sono ovviamente contingentati, e non è consentita la visita a più di 152 persone alla volta. L’entrata è sempre gratuita, almeno fino all’autunno.

Purtroppo non saranno visitabili le sale fisicamente più piccole, non potendo consentire al loro interno il distanziamento sociale necessario per prevenire un’ulteriore ondata del virus.

Non sarà la stessa cosa, ammirare la Pinacoteca con il distanziamento sociale. Però va detto anche che sicuramente gli investimenti di lungo termine cambieranno la loro forma.

Come una maggiore fiducia nel sistema economico fa sì che i progetti e le installazioni diventino più magniloquenti, confidando nell’introito e nella diffusione di un flusso turistico che non si arresta, ora il virus ha messo in discussione la continuatività di questo flusso.

È naturale che gli investimenti nell’arte cambieranno, e quelli museali in particolar modo.

Una Pinacoteca che non sarà più la stessa

Infatti, se già l’interesse per il digitale aveva dettato gran parte dell’agenda della Pinacoteca prima del lockdown, possiamo dire che la quarantena abbia fatto mettere ai curatori il piede sull’acceleratore.

Non dimentichiamoci che la Pinacoteca di Brera è stata una delle prime a consentire, nella seconda metà di marzo, un tour virtuale all’interno delle proprie sale. 

Tanti altri avevano attivato alcune tranche di tour, o parti di mostre, ma qui si parla di un tour integrale, comprensivo delle mostre provvisorie. L’attenzione al digitale si ritrova quindi ancora più acuita in seguito a questa riapertura. La Pinacoteca non sarà più la stessa.

 

Apro questa parentesi perché Art Dubai ha annunciato proprio in questi giorni che rinvierà l’esibizione, per quest’anno. La causa, ovviamente, il Coronavirus.

La 14ª edizione della fiera internazionale dell’arte, in programma dal 25 al 28 marzo 2020, ha quindi deciso di fermarsi e valutare quando sarà un momento più propizio per ripartire.

Arco Madrid

Non si ferma invece Arco Madrid, che è riuscita a inaugurare la scorsa settimana.

Altre mostre d’arte in Europa e USA

Oltre a Arco, abbiamo il 5 marzo Tefaf a Maastricht. Riportano gli organizzatori:

 Le misure che Tefaf sta prendendo per fornire un ambiente sicuro a tutti gli espositori, i visitatori e al nostro staff, tra queste servizi precauzionali, come servizi di pulizia aggiuntivi per tutto il giorno e la distribuzione e il posizionamento di disinfettanti per le mani in fiera. (Fonte: Il Sole 24 Ore)

Per  The Armory Show (Piers 90 e 94) le anteprime VIP iniziano già il 4 marzo. Invece ADAA Art Show è già in corso. 

Altre fiere il cui futuro è incerto sono: PAD Paris Art + Design (1-5 aprile), Paris Photo New York (2-5 aprile), P rinted Matter L.A. Art Book Fair (3-5 aprile), Art Brussels (23-26 aprile), Affordable Art Fair , che ha in programma edizioni consecutive a Bruxelles (20-22 marzo) e New York (26-29 marzo) e Tbilisi Art Fair (14-17 maggio).

Il destino già scritto di Miart

È triste quando un evento del genere si prospetta all’orizzonte, ma con Milano in quarantena e i voli dagli States quasi interamente bloccati, la prossima edizione di miart è molto probabilmente saltata.

La fiera era in programma dal 17 al 19 aprile.

Invece il Salone del Mobile è già confermato dal 16 al 21 giugno 2020.

Si attende una nuova data anche per la prima mostra “soppressa” sull’onda dell’epidemia, MIA Photo Fair, che si sarebbe dovuta tenere dal 19 al 22 marzo.

Coronavirus: un danno economico non indifferente

Una considerazione ridondante, forse… Ma il danno economico che questo Coronavirus sta generando nell’indotto turistico e artistico italiano non andrà sottovalutato. Ho paura che gli scenari che si apriranno in futuro non saranno per nulla positivi, per quella fetta del nostro PIL che vive degli spostamenti della gente.