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E’ la fine del 1750 e nei salotti francesi buoni e in odore di illuminismo si aggira una curiosa stampa. E’ il Prospectus dell’Encyclopèdie, che riporta la data di stampa del 1751, in una perfetta operazione di marketing che mira a promuoverlo adeguatamente nei circoli che contano.

La domanda che mi collega al discorso di una enciclopedia retribuita è: chi paga?

Gli editori

Così scrivono gli editori del progetto Encyclopedie, facendo scarcerare Diderot da Vincennes, dove stava rinchiuso«Quest’opera, che ci costerà 250.000 lire – scrivono – e per la quale ne abbiamo già spese più di 80.000, stava per essere annunciata al pubblico. La detenzione del signor Diderot, l’unico uomo capace di un’impresa così vasta, e il solo che possieda la chiave di questa operazione, può significare la nostra rovina!» (così dice Luciano Canfora nella sua introduzione alla traduzione italiana del Prosectus nei “Quaderni di varia cultura”, al quaderno 01, della Fondazione Gianfranco Dioguardi. La traduzione è di Francesco Franconieri).
Stiamo parlando del 1749, Diderot verrà scarcerato dopo soli tre mesi, e il suo progetto di Enciclopedia sarà un lasciapassare pubblico che gli consente di proseguire il suo lavoro intellettuale, interrotto dalla censura governativa.
Ma la parte più interessante è che il progetto ottiene “1002 sottoscrizioni dell’opera intera” (spiega Canfora). Una sorta di crowdfunding ben riuscito.
E’ abbastanza istintivo evincere da questi fatti che chi ci guadagnò veramente dal progetto editoriale furono gli editori. Non ci è dato sapere se gli enciclopedisti percepissero un compenso, come già gli autori del “caffè” milanese, che però era un periodico.

Rimborsi spese

Il lavoro giornalistico era certamente retribuito, tant’è che già la professione di giornalista andava formandosi. Invece li lavoro enciclopedico nasce sulla scorta di una spontanea abnegazione, oltre a un’implicito classismo sociale che assegnava ai ricchi di famiglia la possibilità di dedicarsi alle culturali applicazioni.
C’è anche da dire che Diderot nell’introduzione istituisce un parallelismo tra il reperimento di informazioni che ha fatto e quanto avrebbe potuto fare andando presso artisti. Cita i “soldi in mano” necessari per questi ultimi, e abbiamo buone ragioni di credere che le “consulenze” elargitegli le remunerasse ampiamente.
Che esistesse un rimborso spese per il suo lavoro? Ne dubito fortemente. Ma nel prossimo post parlerò di come la mutazione sociale impedisca la riproposizione di questo genere di schema.

La luce in fondo al tunnel per le criptovalute. Questa sembra la convinzione del momento dell’intellighenzia informatizzata e avventurosa in fatto di investimenti. Si legge di un giovane di nome Didi Taihuttu, che ha venduto tutti i propri beni immobili, e gran parte di quelli mobili. Ora vive in una roulotte con la famiglia e crede fermamente che diventerà ricco con la criptovaluta nella quale ha investito.

Come ho già scritto la volatilità di questo mercato impedisce di fare previsioni di crescita sicure, ma non è questo l’argomento del quale voglio parlare.

Mi piacerebbe introdurre una novità assoluta, l’enciclopedia retribuita a criptovalute. Dunque, quali sono le novità in ballo con l’enciclopedia targata Lunyr della quale si sente molto parlare in questo periodo?

Innanzi tutto, se ne parla ora perché è stata indicizzata dai motori di ricerca la sua versione beta. Aggiornata, funzionale, rapida. In secondo luogo, la moda delle criptovalute, come sostenevo nel mio precedente articolo, consente che qualsiasi albero che cade faccia più rumore… Et coetera.

Ma qual è la vera novità dell’enciclopedia retribuita a criptovalute?

Forse più la retribuzione, che la criptovaluta. La retribuzione del lavoro intellettuale dell’enciclopedico, prima nato come studioso e filo-sofo, amante della saggezza e quindi desideroso di condividerla, anche gratuitamente. Professionalizzare un’operazione del genere, si dimostrerà necessario? Mi piacerebbe fare un percorso tematico sull’argomento, che inizierò con queste scarne osservazioni.

Ma due parole sulle criptovalute circolanti nel sistema lunyr le devo spendere. Innanzi tutto, “la piattaforma integra anche un sistema di advertising, ovviamente basato sui token, cosa che dovrebbe far girare ancora di più l’ecosistema del nuovo mezzo” (come scrive Il Sole 24Ore).

I token sarebbero i “gettoni”, cioé le criptovalute. Queste monete varrebbero quindi all’interno del sistema come una merce di micro-retribuzione degli autori, e di chiunque volesse pagarsi uno spazio pubblicitario. La domanda che mi resta è, cosa succederebbe se i token andassero male negli investimenti azionari al’infuori della piattaforma?

Mi pare che la situazione sia quella di svalutazione delle monete nei mercati globali. Cosa che non diminuisce il potere d’acquisto nel territorio nazionale, nel mondo reale. Ma con i token ci potremo comprare, un giorno, il pane?

 

Macbeth in Sardegna, da quale classe sociale sarebbe stato rappresentato? Così sarebbe portato a chiedersi il sociologo che lo tentasse di attualizzare, secondo la buona pratica di un filone tardo ottocentesco di recupero d’ambiente arcaico per veicolare il moderno. Non amo personalmente l’attualizzazione nel suo senso topico, ovvero non amo che l’ambiente prenda il sopravvento su quello che dovrebbe essere lo spirito hegeliano dell’opera, che l’autore voleva pervasivo e degno di essere ricordato dai posteri.

Il rispetto per il contesto storico, insieme allo sguardo strutturalista crea in me un ingenuo e generico “rispetto del testo”. Ma tant’è, e applico il criterio al selvaggio “Macbettu” di Alessandro Serra, spettacolo che non ho visto ma del quale vengono date abbastanza sinossi sulla rete. Una caratteristica della critica teatrale da web è che racconta molti più dettagli logistici di quello che faceva la critica “colta” di un D’Amico, ad esempio.

Quindi, io so che lo spettacolo è in logudurese. E che la traduzione del testo shakesperiano prevede alcune variazioni di trama consistenti. Inoltre, dicono, il testo si sviluppa come un canto, il protagonista è un pescatore. Però, attenzione, se qualcuno sta storcendo il naso nel sentire l’odore della paventata attualizzazione, non temete, gli attori sono tutti maschi. Come nel più tradizionale teatro elisabettiano.

Macbeth in Sardegna è quindi il pescatore ambizioso e cantante

La moglie, come la Lady Macbeth nella comune memoria, lo spinge quindi ad avere ambizioni sociali superiori. Non recupero informazioni su come avvenga la coercizione, difficile da rendere in un contesto di “canto”, quale descrivono la pièce.

Il canto forse sostituisce, formalmente, la ritmica della versificazione, aggiungendoci la melodia, e questo può risultare un ammicco alla tradizione della Grecia dei classici.

Non ci è dato saperlo. In ogni caso, sicuramente la visibilità che stiamo contribuendo a dare a quest’opera dipende molto dall’hazard del titolo e poco dalla conoscenza del suo contenuto. Sapere poi che l’opera è stata ispirata da un reportage nei carnevali della Barbagia non contribuisce a togliermi i dubbi di attualizzazione selvaggia e assai poco rispettosa dello spirito del testo.

Mi domando perché non “Amletu”.

Sempre più incuriosito dal fenomeno del free touring, di cui ho già parlato. 

Credo che prima o poi mi spaccerò per un turista statunitense e parteciperò a una di queste esperienze di economia “dal basso”.

Duomo, Piazza Mercanti, Castello Sforzesco, Teatro alla Scala, San Bernardino alle Ossa, Università Statale, Galleria Vittorio Emanuele II.

“…And much more” recita uno dei tour più convenzionali. Non so cosa proporrei se avessi ancora l’età per imbarcarmi da guida in questo genere di avventura.

Probabilmente una “Milano degli Sforza”, con approccio tematico a tutti i monumenti e ai luoghi simbolo di questa rinomata famiglia italiana. O magari un tour dei teatri, con le principali prime che hanno contribuito a renderli famosi. Con una necessaria parentesi storica sull’epoca nella quale ogni tetro è stato in auge, qualche curiosità morbosa sulla vita del castrato 500esco di turno… Reperire queste informazioni nella memoria è tanto più difficile, quanto è facile ricordarle quando le si sente come unica nozione relativa a una città.

Avrei sicuramente trasferito la saggistica sociologica che studiavo a considerazioni abitative, attuali. Le gentrificazioni, l’abusivismo edilizio, le vie “della moda”, “della finanza”… Se penso a quanti differenti percorsi tematici si possono affrontare in una città come Milano, quasi rimpiango di non essere nato in tempi più recenti.

Prima o poi partecipo.

E’ senza veli la Milano della fashion week terminata qualche giorno fa.

Non è stata solo una kermesse di alta moda: sono state aperte per l’occasione:

la storica Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, che il Comune mette a disposizione anche per le sfilate dei designer emergenti, supportati dalla Camera della moda, e il Museo della scienza e della tecnica e la Triennale. Ed entrare nel Teatro Lirico, benché ancora in corso di ristrutturazione, per assistere al defilé di Antonio Marras.

(Fonte: Il Sole24Ore)

La Scala ospita domenica sera la prima edizione del Green Carpet Fashion Awards Italia.

Non solo moda, non solo manifattura, ma cultura del bello che dalla Fashion Week in sé si dipana a altri campi d’applicazione artistica.

La valorizzazione di questi due teatri, poi, nati come massima forma di aggregazione culturale nel tardo ‘700. I salotti milanesi si raccoglievano nei loro palchetti alla Scala per discettare di politica, ma più spesso per spiare il corsetto del vicino, per parlare di scandali, per scambiarsi impressioni sul pittore più in voga… A luci semi-accese, con il concerto che invadeva i silenzi (e non, come oggi, viceversa). Lì si consumava la vita mondana di Milano. Alla Scala il teatro grande, al Lirico, originariamente “la Canobbiana”, il teatro piccolo.

Dobbiamo figurarcela chiaramente, l’inestimabile promozione che questi influencer ospiti a Milano possono consentire. Un’immagine colta con Instagram regala una diffusione molto più capillare di quella che l’advertising di un museo o di un sito riesca volontariamente a fare.

Quindi, se la trasversalità di una manifestazione di moda la rende meno autoreferenziale, i milanesi non possono che gioirne.

 

 

 

122mila presenze stimate per il Festival Letteratura di Mantova di quest’anno.

Una città che come spazi non brilla certo per la larghezza dei boulevards. Piazza Sordello ben si presta ai gazebo e alle folle oceaniche del Festival Letteratura, ma il resto delle vie del centro storico risulta intasato, e i ristoratori si fregano le mani ma sembrano accusare il ritmo frenetico.

Un investimento, questo festival che l’anno scorso ha compiuto vent’anni di vita, e che ha valso a Mantova il fregio di Capitale della Cultura 2015.

Non vorrei sbilanciarmi nella valutazione sugli autori coinvolti, ma la pretesa di una folla oceanica richiede necessariamente l’adeguamento del contenuto?

Leggo ora l’editoriale di Davide Longo sul Festival letteratura, il tono decisamente più da “festival” che da “letteratura”. Alle apologie del mostro sacro dello storytelling seguono commenti entusiastici sul “clima” e sulla “democrazia” del festival: al festival possono essere chiamati a partecipare autori alle prime armi come navigati poeti sconosciuti, come autori da ribalta.

Senza nulla togliere al raduno di massa, le critiche in merito sono doverose. Si continueranno a raccontare storie anche quando il digitale avrà definitivamente soppiantato il cartaceo, si continueranno ad ascoltare e vi si assisterà. L’eterno ritorno della narrazione, lo concepisco. Capisco anche la necessità di chiamare “storytelling” la tekne di raccontare con chiarezza, ordine e adeguata retorica ogni storia.

Ma così poco è l’antico, in questa sfilata letteraria. Così tanto spazio invece ha sapore di promozione. Come, ripeto, è giusto che sia per un festival. Ma uno spazio dedicato ai grandi che hanno reso grande l’Italia con le loro penne, non credo nuocerebbe alla partecipazione di massa. Approfittando proprio dell’investimento sul format ammiccante al pop fatto finora.

Non credo che spingere la Letteratura oltre il limite del contemporaneo costituisca una perdita.

In termini di pubblico. In ogni caso, un plauso a Mantova per l’iniziativa, e per la continuità e l’alto profilo logistico. Comunque, se lo meritano.

Il numero chiuso è stato deciso a maggio dal Senato Accademico della Statale di Milano (come racconta il Corriere di Milano qui). Vale per i corsi di Lettere, Filosofia, Storia, Beni culturali e Geografia. La scelta era motivata da insufficienza di personale docente, inadeguatezza delle strutture, necessità di messa in sicurezza…

Erano tutte ragioni comprensibili, ma non sufficienti per i collettivi universitari, che hanno fatto ricorso al Tar.

Queste facoltà verrebbero infatti stravolte dal numero chiuso, non solo a livello logistico.

Il numero chiuso in ambito scientifico esiste oramai nella maggior parte delle università italiane. Se ne può ascrivere la nascita alla legge Zecchino 264/99. Erano momenti di assestamento sulla normativa europea in merito alle figure professionali di medici, dentisti e odontoiatri e si cercava con piccoli adeguamenti di mostrarsi rispettosi delle scadenze.

Quella che pareva una garanzia di qualità è in realtà un principio non condiviso da tutti: non posso non pensare ai Mooc (Massive Open Online Courses). I Mooc offrono scorci su argomenti disparati, da ingegneria, a neuroscienze, a letteratura e arti visive. Anche il MoMa di New York propone un bellissimo corso di fotografia. Si stanno diffondendo negli ultimi anni, e sono tenuti anche da università prestigiose, Yale, Stanford, il MIT…

Capisco anche le limitazioni fisiche. Il digitale supera brillantemente le difficoltà legate all’atto di uscire di casa, o al cambiare città o Paese. C’è poi il “free”, in contrasto col prezzo della retta universitaria o del singolo corso.

Ma a livello di reputazione, siamo realmente sicuri che la limitazione dei posti sia un guadagno? O meglio, lo è per le facoltà non-scientifiche? Trovo sterile la constatazione che il mercato del lavoro è tutto fuorché filo-umanista, e di conseguenza senza numero chiuso si potrebbe fomentare un’illusione occupazionale.

Non accampo ragioni biografiche, visto che appartengo a un altro periodo storico. Penso però che limitare l’accesso ai corsi “culturali” significhi limitare un accrescimento culturale potenzialmente massificato.

Non ci resta che aspettare e vedere come si esprimerà il Tar.

La vigilanza in araldica viene rappresentata da una gru che rimane sollevata con la sola zampa sinistra, mentre con quella destra stringe un sasso. Tra le figure araldiche quella della gru è forse tra le meno popolari, ma la sua storia mi è sembrata da sempre così emblematica della realtà. Nel caso la gru dovesse addormentarsi e lasciarsi sfuggire il sasso, il rumore che questo produrrebbe cadendo la sveglierebbe, da qui la rappresentazione della vigilanza. Banalmente semplice no? Eppure come non notare la realtà di questa rappresentazione.

Spesso siamo così legati a quello che abbiamo, lottiamo molto per ottenere quello che desideriamo, sia che si tratti dell’ambito della conoscenza, della carriera o della famiglia. Quante volte però terminata la fatica della lotta e il compiacimento successivo ci dimentichiamo di quello che abbiamo conquistato? Quante volte come la gru ci addormentiamo lasciandoci sfuggire quello che così duramente avevamo raccolto? Troppe volte diamo per scontato quello che ci circonda, ma è umano.

Tra le tante cose che non dobbiamo dare per scontato tuttavia c’è la nostra conoscenza e quella dei nostri figli. Mi sono imbattuto nel fatto che ormai più di del 60% degli italiani non leggono nemmeno un libro durante l’anno e che, come immaginabile, i figli che non vedono i genitori leggere sono più propensi a non prendere in considerazione questa attività.

Certo è comprensibile che con i ritmi della vita di oggi si faccia davvero fatica  a ritagliarsi un attimo di tempo, di spazio, per sedersi comodi e leggere un buon libro. Spesso si rincasa tardi, stanchi e con ancora mille cosa da fare. Chi è genitore poi lo sa, non si vede l’ora di tornare ad abbracciare i propri figli, raccontarsi a vicenda le proprie giornate. Isolarsi dietro a delle pagine è un vero peccato.

Vigilanza nell’educazione o passatempi insieme?

Non credo che una cosa debba per forza escludere l’altra. Sarebbe bello però riuscire a dedicare una serata in cui invece di guardarsi un film, si legge un libro, anche tutti insieme. Educare le nostre generazioni a quel patrimonio infinito che è la cultura, servirà anche a farle crescere come persone e innalzare il loro valore a livello di capitale umano per il lavoro futuro. Abituarli al tatto del libro, a sfogliarlo, respiralo, a viverlo non soltanto come imposizione scolastica ma facendogli capire che può essere un vero piacere. I libri non sono solo contenitori noiosi, ma opportunità per condividere un’avventura o un viaggio insieme.

Non dimentichiamoci di leggere, non dimentichiamoci di insegnare a leggere, non lasciamoci svegliare come la gru dal sasso ormai caduto.

Come favorire il processo formativo? Nonostante ami molto la lettura, trovo che una soluzione possa arrivare dall’apprendimento dinamico ed esperienziale. Mi sono posto questa domande leggendo una notizia riguardante il Natural History Museum di Londra.

Dippy, la celebre riproduzione in gesso dello scheletro di un dinosauro scoperto negli Stati Uniti, partirà per un tour di due anni che toccherà i più importanti musei della Gran Bretagna. Al posto del grande Diplodocide sarà successivamente collocato lo scheletro reale di una balena azzurra, per denunciare l’impatto dell’uomo sulla natura.

Per ogni frequentatore del museo Dippy era una presenza familiare. Ripensandoci, anch’io ogni volta venivo accolto dalla sua mole imponente e ogni volta mi faceva rendere immediatamente conto di quanto la natura fosse potente e capace di creare cose straordinarie.

Una riproduzione in gesso come può contribuire al processo formativo?

Semplicemente mettendo a disposizione la sua presenza per stupire i più piccoli, che spesso per la prima volta si trovano tu per tu con le nozioni imparate sui libri, che troppo spesso rimangono solo cartacee. Credo sia fondamentale la curiosità per crescere, per avere voglia di sapere, per non fermarsi alla conoscenza superficiale. Cosa ci può essere di più stupefacente e magico per un bambino dell’essere messo dinnanzi ad un dinosauro di 21 metri che prima poteva solo immaginare? Quella maestosità, quello stupore lo spingerà a volerne sapere di più. Allora ben vengano musei, apprendimenti dinamici e nella natura, che mettono direttamente a contatto le nostre nuove generazioni con la conoscenza. La possono vedere, toccare, sperimentare, appassionandosi inevitabilmente.

Questo tuttavia non vale solo per i più piccoli. Tutti noi abbiamo bisogno di riscoprirci curiosi, di riprovare forti sentimenti davanti alla conoscenza, così che un dipinto non rimanga solo un quadro, un libro solo carta e una lezione solo una nozione astratta di passaggio. Avvicinarvi alle forme di espressione artistica e culturale a voi più congeniali sarà sicuramente un buon inizio, poi in caso siate di passaggio in uno dei musei inglesi in cui verrà esposto il grande Diplodocide nei prossimi due anni, magari fategli una visita.