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Nonostante la momentanea interruzione delle domeniche gratis, poi ripristinata da Franceschini nel settembre 2019, le visite dei musei italiani nel 2019 sono state in crescita rispetto al 2018.

Un boom a Pompei

La vincitrice indiscussa è Pompei: le presenze in più sono state 160 mila. Il totale di 4 milioni di biglietti è notevole, considerando le ondate di maltempo che ci sono state durante l’anno, e che hanno penalizzato tutti i siti turistici italiani.

Consideriamo che circa 4 anni fa i biglietti per Pompei erano 2,5 milioni.

Musei piccoli e periferici spesso penalizzati

Essere lontani dalle rotte del turismo può avere i suoi svantaggi. Così è stato nel 201 per i piccoli musei e le piccole gallerie, fortemente penalizzati dagli episodi di maltempo e della chiusura domenicale. A differenza delle grandi gallerie.

I numeri dei big

Perdono visite invece il Colosseo, che registra 100mila presenze in meno rispetto al 2018. 7,5 milioni di presenze totali per il monumento considerato il simbolo dell’Impero Romano, della Città Eterna, e da qualcuno dell’Italia stessa.

Gli Uffizi registrano 4,5 milioni di visite. Quest’anno sono state considerate in aggregato con il giardino di Boboli e Palazzo Pitti.

Questi tre, Pompei, gli Uffizi e il Colosseo, sono i vincitori indiscussi del 2019, per quanto riguarda le presenze.

Numero dei visitatori: non aumenti esponenziali

E’ diversi anni che gli aumenti sono esponenziali, ma il 2019 ha risentito delle due diverse attenuanti del maltempo e della chiusura delle domeniche.

Una nota per Matera: la cittadina ha registrato un 20% in più di visite, in seguito all’elezione di capitale europea della cultura 2019.

Finisco la rassegna, stavolta ignorando i fatti di cronaca e concentrandomi sul preservare almeno la memoria dei patrimoni storico culturali. Se un maggior numero di individui si dedicasse a questa attività, per generalizzare debitamente, i guerrafondai assidui diventerebbero storiografi napoleonici contro anti-napoleonici. Questa era una battuta di un mio insegnante di storia, che non ho mai ben capito cosa volesse dire. Come la intepreto a posteriori: se il bombardamento non fosse un’opzione, come accade per i dibattiti occidentali sulla cultura, probabilmente saremmo qui a discutere sulla validità dei manufatti storici dei quali stiamo parlando. Se i manufatti in questione siano o meno valevoli di menzione parlando dell’identità di un Paese, ad esempio. Cosa che non possiamo certo domandarci se la minaccia di crollo, o di bombardamento in questo caso, incombe.

La moschea di Sheik Lotfallah, Mashhad

Una moschea destinata alla famiglia reale, piuttosto che al popolo, e questo ne giustifica gli stupendi arredi. Non è la maggiore basilica della città, quanto a dimensioni, ma sicuramente quella con le mattonelle piu’ ornate. La piu’ grande moschea del mondo l’abbiamo invece a Mashhad, ed è la moschea di Imam Reza. Il The Guardian parla di 25 milioni di visitatori ogni anno. L’ottavo degli imam della Shia, per chi è pratico di dottrina islamica. Una figura indubbiamente di riferimento per milioni di fedeli, o se non la figura, sicuramente la tomba in quanto orizzonte simbolico di significato, come direbbero i semiologi.

La prima capitale dell’impero achemenide

Costruita da Ciro il Grande in persona, Pasargade vede la sua magniloquenza di capitale affidata all’accostamento tra edifici maestosi e pittoreschi e bellissimi giardini. A coronarli fontane, canaletti, giochi d’acqua, sopra quella che alcuni dicono essere la tomba di Ciro il Grande in persona.

Se ancora non vi ho convinto con le bellezze di questo Paese, lasciatevi raccontare della Cittadella di Bam, una perla del sesto secolo a.C. 180mila metri quadrati per una stupenda cittadina arroccata su un monte, con una strategica fortezza centrale, case, bazar. Il tutto circondato da mura alte 7 metri. La cittadella fu in gran parte distrutta da un terremoto nel 2003, ma da allora in avanti la ricostruzione è andata avanti.

Per finire: la torre di mattoni piu’ alta del mondo

Gonbad-e Kavus può considerarsi un altro esempio di ingegneria e arte persiana notevole: si tratta della torre di mattoni piu’ alta del mondo. E’ una torre funeraria su una base di stella a dieci punte, con un tetto conico contornato da scritte, contornato da scritte che ne alterano solo parzialmente l’austerità.

Di sé Anton Checov, dopo la laurea in medicina, scrive:

Perché non scrivere per esempio la storia di un giovane, figlio di un servo della gleba, già bottegaio e cantore, studente ginnasiale e poi universitario , educato al rispetto della gerarchia e a baciare la mano dei popi? UN giovane che si inchina la pensiero altrui, ringrazia per ogni tozzo di pane, viene frustato più di una volta, va in giro a dar lezioni in inverno senza soprascarpe… Perché non raccontare come questo giovane tenti di liberarsi, goccia a goccia, dello schiavo che è in lui e come, svegliandosi una mattina, egli si renda conto che nelle sue vene non scorre più sangue di schiavo, ma di vero uomo?

Una testimonianza schietta della idea che il giovane drammaturgo aveva della sua virata verso il successo nella vita.

Invitato a Lejkin, a Pietroburgo, da alcuni amici, Checov scopre di avere nella capitale una inaspettata popolarità. Gli viene offerto un posto fisso in una rivista, dove potrebbe scrivere senza limiti di lunghezza e in modo regolare, a patto che scriva con il suo vero nome e non sotto pseudonimo.

Il venticinquenne Checov, ormai votato alla carriera medica, rifiuta. Accetterà di scrivere con il suo vero nome solo dopo la commossa lettera di un ammiratore. E’ il 1887 e esce la sua raccolta di racconti che verrà poco più tardi premiata dal premio Puskin: “Il Crepuscolo”. Nello stesso anno Checov ritorna al teatro, ma la compagnia teatrale non è all’altezza della messinscena: quattro prove invece delle dieci concordate, attori ubriachi in scena, poco naturalismo, battute stravolte per strappare degli applausi dal pubblico. Due repliche, e l’opera è tolta dal cartellone.

Il successo letterario delle sue prose comincia a incrementarsi, e tra circoli letterari cominciano a tentare di indovinare l’appartenenza politica di Checov. Lui si definisce né liberale né conservatore, e tanto basti alle speculazioni della società moscovita.

Il teatro gli languisce, non si capisce se per la necessità di prosa o se per la scarsa qualità degli attori con i quali Checov ha a che fare. Mentre auspica un ritorno del teatro dalle mani dei bottegai a quelle dei veri artisti, comincia però a essere apprezzato anche sul palcoscenico.