Archives for category: Riflessioni sul futuro

Capita spesso camminando per il centro di incorrere in fenomeni antropologici quantomeno studiabili. 

Mi riferisco non solo alla variabilità del milieu che popola le strade, in quanto a classe sociale, appartenenza religiosa visibile, manifestazioni di maggiore o minore educazione, ecc.

Stavolta vorrei parlare più del vestiario. 

Ne ho vista di gente mascherata. Ho visto dei buttadentro alle prese con l’invito dei passanti nel loro locale, bardati delle peggiori divise, anche con 40 gradi all’ombra. 

Ho visto persone combattere contro il caldo a suon di capi d’abbigliamento succinti, ma anche dei look che ho trovato molto curiosi in giovanissimi e a volte persino citazionisti verso mie memorie adolescenziali.

La gente fuchsia

Ho visto uno stuolo di ragazzine e ragazzini con dei capi d’abbigliamento fuchsia e rosa. La cosa mi ha incuriosito ed è bastato una semplice ricerca Google per squarciare il velo di Maya: è uscito il nuovo film di Barbie. 

Immaginavo un’utenza infantile, ma ho scoperto con somma sorpresa che questo emblema prima di rivendicazione femminista, poi di gioco infantile soprattutto femminile, poi di strumentalizzazione del corpo femminile è stato oggetto di diverse polemiche. 

La principale dovuta al fatto che Barbie è stata rivisitata da una nota contemporanea regista femminista, Greta Gerwig. 

La mia ignoranza cinematografica mi aveva comunque consentito di ricordarla come la regista di un riadattamento recente di Piccole Donne, che mi è personalmente piaciuto molto. Ho notato una certa vena che puntava a mettere le luci dell’emancipazione femminile dei personaggi della May Alcott, però tutto sommato non trovo che disturbasse eccessivamente l’intreccio originario.

Ideologie vive

Quello che mi colpisce è la venatura ideologica che percepiscono nell’associare un modo di vestire a un global trend e quindi a una regista femminista. 

Ma non erano morte le ideologie?

Vuoi vedere che mi tocca andare al cinema per Barbie? 

Le valutazioni economiche e contestuali che si potrebbero fare sono molte, ma stavolta vorrei fare un salto nel tecnico. Qual è la differenza tra intelligenza artificiale forte e intelligenza artificiale debole?

Intelligenza artificiale forte

L’intelligenza artificiale forte, anche conosciuta come IA generale, si riferisce a un tipo di intelligenza artificiale che ha la capacità di comprendere, apprendere e applicare la conoscenza in modo simile agli esseri umani. Questo tipo di IA si presta a qualsiasi compito intellettuale che un essere umano può addossarsi. È dotata di autoconsapevolezza, ragionamento e apprendimento autonomo, ma soprattutto è un concetto integralmente teorico, elaborato solo in seno a un dibattito accademico e mai pienamente realizzato.

Intelligenza Artificiale Debole

L’intelligenza artificiale debole, o IA specifica, è quella che è stata progettata per svolgere compiti specifici e funzioni predefinite senza possedere una vera comprensione o coscienza di sé, come i programmi per generare automaticamente immagini, o ChatGPT, o gli algoritmi in grado di riconoscere le espressioni facciali, e molto altro. Questo tipo di IA è limitato nelle sue capacità e può eseguire solo le attività per cui è stata programmata. Abbiamo anche gli assistenti virtuali come Siri o Alexa, ma anche, per entrare nel mondo più business, i filtri di spam nelle mail.

La differenza principale tra intelligenza artificiale forte e debole risiede nelle loro capacità e nelle loro applicazioni. L’IA forte è teoricamente in grado di eseguire qualsiasi compito intellettuale come un essere umano e possiede autoconsapevolezza, mentre l’IA debole è limitata a compiti e funzioni specifici e non ha una vera comprensione o coscienza di sé.

Detto ciò: a chi interessa principalmente un dibattito che non sia speculativo sulla possibilità di creare l’intelligenza in vitro?

Intendo: siamo davvero così ansiosi di ricreare uno scenario fantascientifico in cui le vecchie professioni vengono spazzate via, le catene di comando iniziano a eludere i sistemi democratici e si tecnicizzano? Siamo sicuri che vogliamo l’arte in mano all’intelligenza artificiale forte?
 

Io probabilmente non vedrò la sua ascesa (dell’IA forte) ma posso vaticinarlo: sarà una rivoluzione tecnologica, e soprattutto sociale.

Mi è stato chiesto durante una cena, e ho pensato di riportarlo qui. Lì per lì le idee sono state confuse, e credo sia il caso di dire sempre una parola in più, piuttosto che lasciare nell’opacità.

Definizione di “libertario”

Il termine “libertario” indica un’ideologia politica che enfatizza la libertà individuale e il minimo intervento del governo negli affari sociali ed economici. I libertari credono in una società in cui gli individui sono liberi di fare le proprie scelte, purché non danneggino gli altri o violino i loro diritti.

In termini di politica economica, i libertari sono generalmente favorevoli al capitalismo di libero mercato, a regolamentazioni minime e a un governo di piccole dimensioni che non interferisca con le attività di mercato. Ritengono che il libero mercato crei ricchezza, promuova l’innovazione e l’efficienza e offra agli individui maggiori opportunità di perseguire i propri interessi.

In termini di politica sociale, i libertari sostengono generalmente l’autonomia personale e credono che gli individui debbano essere liberi di fare le proprie scelte su come vivere la propria vita, a patto che non danneggino gli altri. Ciò include il sostegno alle libertà individuali, come la libertà di parola, di religione e di scelta dello stile di vita.

In breve

In generale, il libertarismo è spesso associato a una fede nella responsabilità individuale e in un governo limitato, ed è considerato sul lato destro dello spettro politico. Tuttavia, esiste una notevole diversità all’interno del movimento libertario e i diversi libertari possono avere opinioni diverse su questioni o politiche specifiche.

L’esempio che mi sento di fare, uno dei più pop, è Ron Paul.

Ron Paul, chi è costui?

Le convinzioni politiche di Ron Paul sono radicate nel libertarismo, che enfatizza la libertà individuale, il libero mercato e il governo limitato. Alcune delle sue posizioni sono la politica estera non interventista, la libertà individuale (sostiene la legalizzazione delle droghe, il matrimonio omosessuale e altre questioni legate alla libertà personale).

Abbiamo poi il limite da imporre al governo, di modo che non risulti troppo invasivo nella vita dei cittadini, cosa che nel caso di Ron Paul comprende anche la critica alla spesa pubblica.

In generale, si mira a limitare la repressione socio-politica.

Spero di aver chiarito il dubbio!

Randal Johnson e Robert Stam, i due principali storici del cinema brasiliano in lingua inglese, dividono il Cinema Nôvo in tre fasi, la prima delle quali va “dal 1960 al 1964, data del primo colpo di stato; dal 1964 al 1968, data del secondo colpo di stato; e dal 1968 al 1972”. 

Fase 1

La prima fase è stata caratterizzata dall’opposizione al cinema commerciale in tutte le sue forme, dove il cinema era concepito come politico, e contro il neocolonialismo. In genere, i film della prima fase trattavano “i problemi del lumpen-proletariat urbano e rurale: la fame, la violenza, l’alienazione religiosa e lo sfruttamento economico”.

I film non rifuggivano dalla rappresentazione della dura realtà della vita, ma mantenevano comunque una certa visione ottimistica, forse come riflesso della giovinezza dei cineasti, prevalentemente giovani.

Uno di questi fu Glauber Rocha, che oggi è generalmente considerato il più grande di tutti i registi brasiliani. Il suo primo lungometraggio fu Barravento (Il vento che gira, 1962), storia di una comunità di pescatori bahiani (principalmente afro-brasiliani), che realizza una sintesi dialettica tra alienazione religiosa e progresso e tra metodi di pesca passati e presenti.

Nella sua strana combinazione di elementi realistici, tra cui le riprese sul posto e l’impiego di attori non professionisti, con montaggi eisensteiniani e movimenti di macchina deliranti, Barravento anticipa il secondo lungometraggio di Rocha, Deus e o Diabo na Terra do Sol (letteralmente “Dio e il Diavolo nella Terra del Sole”, ma con il titolo inglese “Black God, White Devil”, 1964), e segna l’originalità del suo lavoro per il nuovo cinema brasiliano.

Dio nero, diavolo bianco è ambientato nel sertão, la leggendaria, inospitale regione del nord-est brasiliano colpita dalla siccità, dove la pioggia arriva di solito solo sotto forma di alluvioni improvvise. Il film combina miti sincretici del nord-est con versi popolari, letteratura cordel e musica indigena brasiliana, sia classica che folkloristica, e stilisticamente mescola la messa in scena di tableaux e la recitazione melodrammatica, girata in tempi lunghi realistici con movimenti di macchina a scatti intervallati da jump-cut.

I personaggi principali sono contadini sertanejo itineranti che interagiscono con i ferventi seguaci religiosi (beatos) del mistico nero Sebastião e con vari banditi, per lo più buoni cangoceiros finiti male, che alla fine vengono risparmiati dal cattivissimo “assassino di cangoceiros”, Antonio das Mortes.

Altri film chiave della prima fase sono l’antimilitarista dialettico Os Fuzis (I fucili, 1964) di Ruy Guerra, che demistifica il misticismo e in cui i personaggi di un giovane soldato, Mário, e di un camionista, Gaúcho, Ganga Zumba (1963) di Carlos Diegues, sulla rivolta degli schiavi, e Vidas Secas (Vite aride, 1963) di dos Santos, un’esposizione definitiva e prevalentemente realista della lotta di una famiglia per vivere nel sertão.

(continua)

 

Vorrei riportare una notizia che ho trovato sulla CNN, e che ha svoltato la mia giornata.

Visto che di recente ho parlato in toni entusiastici di una Salomé rappresentata in un cimitero, torno al cimitero con una festa della birra. Di per sé la festa si era tenuta sul sagrato di una chiesa inglese, la St- Mary di Stockton-on-Tees.

Festività tradizionali o culto dei morti? 

Dalla CNN:

Le fotografie hanno scatenato una tempesta di rabbia sui social media, con i residenti sconvolti che hanno inondato un gruppo Facebook di notizie locali con i loro commenti.

Uno ha scritto: “Questo è un comportamento vergognoso, non solo da parte delle persone coinvolte ma dalla chiesa per aver permesso che questo accadesse. I cimiteri sono luoghi in cui le persone rendono omaggio e ricordano i loro cari, non sono giardini della birra, e quelle lapidi non sono certo sgabelli o tavoli. Qui c’è bisogno di scuse pubbliche”.

Un altro ha detto: “Perché non potevano sedersi sul verde, che è appena fuori, invece che sulle tombe? Penso che sia spaventoso… Che totale mancanza di rispetto per i defunti e le loro famiglie”.

E qualcun altro ha scritto: “Sarei molto arrabbiato se avessi una famiglia sepolta lì”.

Non tutte le risposte sono state negative, tuttavia. Un commentatore ha scritto: “Oh, per l’amor di Dio, le persone si stanno riunendo per divertirsi, sono sicuro che (Dio faccia riposare le loro anime) le persone saranno felici di essere parte di una celebrazione e di un momento felice, per favore godiamoci la vita”.

Un altro ha sottolineato: “La tomba nella foto risale al 1740. Non riesco a capire il vetriolo che c’è qui contro la gente nella foto”.

La difesa istituzionale

Difendendo l’evento, il vicario di St. Mary, il reverendo Martin Anderson, ha detto che era stato in parte organizzato per raccogliere fondi per le riparazioni dell’edificio storico. Tuttavia, si è scusato per qualsiasi turbamento.

Scrivendo sulla pagina Facebook della chiesa lunedì mattina, Anderson ha detto: “Negli ultimi giorni le nostre porte erano aperte ancora una volta ai membri della nostra comunità locale, giovani e vecchi, che sono venuti a godersi la nostra Festa della Birra, a sostenere il business locale e a passare del tempo con amici vecchi e nuovi.

“Attraverso questo siamo stati anche in grado di generare fondi per aiutare a mantenere il nostro bellissimo edificio, oltre ad offrire uno spazio per l’amicizia e la comunità.

 

Tempo e cultura sono spesso percepiti come entità distinte, ma la concezione del tempo, oltre che indissolubilmente caratteriale, è anche culturale.

Mi è capitato per esigenze lavorative di avere a che fare con persone di diversa cultura. Mi aspettavo di interagire con una gamma diversificata di persone e culture, ma non mi ero mai reso conto che anche all’interno di un solo piccolo paese come l’Italia, possono coesistere due culture distinte, ciascuna con un modo diverso di pensare al tempo.

Le due concezioni del tempo

Una è fortemente guidata da esso; l’altra lo considera in modo blando, dando più peso alle interazioni personali e alle relazioni. Entrambe le priorità sono importanti negli affari, ma cosa succede quando, per esempio, si lavora in una cultura che dà più importanza al tempo e al rispetto delle scadenze e si deve interagire con una cultura che non lo fa?

Fai i tuoi compiti. Imparerai con l’esperienza, ma fare ricerche sulla cultura con cui lavorerai può risparmiarti molti potenziali passi falsi. Il modo più veloce per farlo è semplicemente parlare con le persone con cui lavorerai. Anche se lavorate per la stessa società madre, sedi diverse hanno protocolli e operazioni diverse. Le persone spesso sono disposte a condividere aspetti della loro cultura quando vedono che vuoi far funzionare il rapporto. A loro volta, potrebbero essere più inclini ad essere comprensivi anche verso le vostre differenze culturali.

Comunicare nel contesto della cultura. Per convincere persone di diverse culture a rispettare una scadenza importante, fate appello a ciò che apprezzano. Se si tratta di mantenere buone relazioni, sottolineate come il mancato rispetto di una scadenza danneggerà le relazioni e provocherà una perdita di fiducia.

La comunicazione digitale non è risolutiva

Non dare per scontato che la comunicazione digitale superi le barriere culturali. Diciamo che mandi un’email a qualcuno in Giappone e ti aspetti una risposta veloce a una semplice domanda… ma poi non hai notizie fino al giorno dopo o giorni dopo. Perché potrebbe essere così? Beh, la cultura commerciale giapponese premia il consenso di gruppo. La persona a cui hai inviato l’e-mail potrebbe consultare i membri del suo team e i suoi superiori prima di darti una risposta. Quindi è premurosa e rispettosa, piuttosto che menefreghista, ma questo potrebbe non trasparire dall’email. Puoi chiedere educatamente cosa sta causando il ritardo e gestire le tue aspettative di conseguenza la prossima volta che incontri una situazione simile con qualcuno del Giappone o dell’Asia orientale. La pazienza è la chiave.

Non esiste un approccio unico per affrontare le differenze interculturali. Quando lavorate in più culture, dovete assumere il ruolo di un camaleonte, cambiando i colori a seconda del vostro ambiente. Questo è più facile a dirsi che a farsi, ma raggiungere una vera competenza interculturale non deriva solo dalla conoscenza, ma anche dall’osservazione continua e dalla pratica adattiva. 

 

Tutti noi abbiamo la tendenza a guardare le altre culture attraverso la lente della nostra. Anche se questo è naturale, può portare a malintesi quando si comunica e quando ci si relazione con persone che provengono da altre parti del mondo, e con cui dobbiamo condividere un’agenda. Io ho notato che soprattutto in un campo è difficile trovare accordo: le scadenze.

Per capire come un concetto apparentemente bianco e nero possa essere interpretato in modi diversi, bisogna prima capire come le diverse culture percepiscono il tempo.

Come percepiamo culturalmente il tempo

Le culture occidentali tendono a vedere il tempo come lineare, con un inizio e una fine definitivi. Il tempo è visto come un’offerta limitata, quindi le persone occidentali strutturano la loro vita, specialmente le operazioni commerciali, in base a tappe e scadenze. Non rispettarle potrebbe essere interpretato come una scarsa etica del lavoro o come una forma di incompetenza.

Altre culture percepiscono il tempo come ciclico e infinito. È più importante fare le cose bene e mantenere l’armonia, piuttosto che preoccuparsi di fare le cose “in tempo”. In India, per esempio, le scadenze sono viste come “obiettivi” da rispettare nel contesto di compiti e priorità concorrenti e del danno potenziale che un ritardo avrebbe su una particolare relazione.

Attenzione!

Questo non vuol dire che le culture orientate alle scadenze non si preoccupino di fare bene un lavoro o di coltivare le relazioni, ma fare il lavoro in tempo è il principale motore capitalistico per essere primi sul mercato. Spesso ha la precedenza sul fatto che le relazioni possano essere influenzate negativamente. Il tempo spesso è letteralmente uguale al denaro, in termini di costi, margini di profitto, e battere la concorrenza per la quota di mercato.

Quando queste diverse priorità (compito/tempo rispetto alla relazione) non sono chiare o non vengono prese in considerazione, il risultato sono incomprensioni tra i professionisti che possono portare a frustrazione, perdita di fiducia tra i team, obiettivi e traguardi mancati e persino sanzioni finanziarie.

Stiamo tirando le somme in questi giorni, in cui il periodo del primo lockdown sembra abbastanza lontano per trarre delle conclusioni di massima sulla storia dei consumi.

La domanda numero uno, quando si parla di eBook, è sempre stata: ma la gente si abituerà al nuovo supporto?

Non rimarrà viva una forma di predilezione nostalgica per le pagine fruscianti, profumate di stampa fresca?

Ebbene, la risposta che ci ha dato questo periodo di reclusione forzata è: forse no.

Lo dimostra chiaramente il caso Bruno Editore.

Il caso Bruno Editore

Come riporta l’Ansa, l’editore ha fatturato un 202% in più per la vendita di libri elettronici. Dai libri sulla crescita personale, a quelli tecnici, alla narrativa: quello sopra riportato è il dato delle vendite dei primi nove mesi del 2020, comparato allo stesso periodo nel 2019. 

Un crescita che lascia molto su cui riflettere, anche se, dal mio punto di vista, sarebbe più interessante vedere il tipo di titoli che vengono venduti. Personalmente, ritengo l’ebook un ottimo strumento, sicuramente più ecologico, anche se sussistono diversi dubbi circa lo smaltimento e l’approvvigionamento di risorse.

Ma non sono un esperto, per carità. Quel che conta però è anche l’esperienza unica e ineliminabile del lettore: per me, il libro è prima di tutto cartaceo. Il libro è un oggetto, che viene depositato su uno scaffale e lasciato lì. Un oggetto che accompagna la vita quotidiana, o lo studio, che ricorda momenti dell’infanzia o della prima giovinezza, o degli apici ideologici di qualche settimana prima.

Il processo di digitalizzazione del libro

Insomma, l’avvento dell’ebook, oltre a una rinnovata passione per alcuni temi abbandonati dalla filosofia e prima monopolizzati dalla religione (ad esempio, la crescita personale), significa proprio un’esperienza di fruizione diversa.

Forse i libri cesseranno di essere uno status. Chi della mia generazione non ha vissuto cosa significa “avere una biblioteca a casa”?

Forse la lettura dei libri diventerà quello che dovrebbe essere: una eco sulla persona, un positivo ritorno della lettura in tutti gli aspetti della vita.

Non sto dicendo che con il libro cartaceo non fosse così, e non sto dicendo che mi omologherò a questa tendenza.

Però, forse, stiamo assistendo a un vero e proprio ripensamento del concetto di crescita personale.

Spero di assistervi.

 

Nessuno ha mai allestito una Norimberga per le malefatte risorgimentali, di qualsivoglia parte politica, e quindi i Borbone a processo a Isernia non ci andarono mai realmente. Solo, si registrarono dei moti popolari filo-borbonici, e le conseguenti repressioni.

Questo è stato il pensiero degli organizzatori di un evento in cui mi sono imbattuto ieri, mentre facevo le mie ricerche per la scultura del bambino paleolitico, opera di un’artista francese, tornato in Italia ed ora disponibile alla visione.

Mente spulciavo le cronache locali alla ricerca della data di esposizione della bellissima scultura, a opera di una paleo-artista francese, mi sono imbattuto in un articolo di cronaca.

I Borbone a processo a Isernia: assolti

Vi do un po’ di contesto: nel lontano 2012, in seno alle consuete celebrazioni dell’Unità d’Italia, a Isernia si è svolto un convegno dal titolo curioso, che ho trovato pubblicizzato sulla pagina del Corriere

Il titolo era seguito da questa ulteriore precisazione: 

A Isernia dibattimento-convegno sul ruolo della dinastia ai tempi del Risorgimento. “Sono stati già sconfitti dalla Storia”.

Meraviglioso. Innanzi tutto, vorrei premettere, che senso ha fare un processo storico? Intendo, da questo momento in poi qualcuno si prenderà la briga di modificare la narrazione dominante, che racconta delle angherie dei Borbone? Cosa facciamo, tabula rasa e presentiamo una sommatoria degli episodi di violenze e abusi da entrambe le parti, e infine decidiamo il vincitore e il vinto?

Il processo a Isernia sembrava avere proprio questi connotati.

Non si vince mai

Per questo mi sento di accodarmi alla schiera dei moderati, e di non prendere parte al dibattito. A parte che ormai parliamo del 2012, e sono arrivato un po’ in ritardo. Ma poi, trovo il gioco della riabilitazione abbastanza disonesto. 

Mi spiego: nella storiografia capita spesso che una tesi, per essere notata, accolta, anche solo popolare, debba essere in qualche modo dirompente.

Purtroppo anche gli storiografi, che sono una razza solitamente pacata, non sono esenti dal sensazionalismo.

E quindi, la riabilitazione della parte offesa fa purtroppo parte della storiografia, che sembra dire “no, nella disciplina contemporanea non accettiamo più che la storia la scrivano i vincitori”.

Temo che il buon storiografo debba sì astenersi dal decretare vincitori e vinti nelle proprie pagine. Ma la Storia ha parlato.

E come hanno giustamente detto gli organizzatori del convegno: hanno già vinto i Savoia.

Un incubo per gli insegnanti, forse, alle prese con le nuove prescrizioni anti-contagio.

Un nuovo incubo, per meglio dire, perché già si erano trovati alle prese con le nuove sfide educative della didattica a distanza.

Sembra che sia stata mal digerita da quegli alunni più attivi, che hanno continuato a usare i propri telefoni durante la lezione, indisturbati.

E le verifiche e le interrogazioni? Con i riassunti appesi ai lati dello schermo del computer, ovviamente.

Difficile tracciare una statistica basandosi su dati percepiti come questi, però mi immagino, bambino, davanti a uno schermo che abitualmente uso per giocare.

Nulla potrebbe trattenermi, se mi è possibile, dal giocarci ancora, anceh se inizia la scuola.

Già la lezione frontale non era, da bambini, una delle modalità più entusiasmanti che ci fossero.

Oggi la didattica era quasi riuscita a ovviare all’impedimento del “faccia a faccia” e all’incredibile noia che questo solitamente porta con sé, per i meno adulti.

I laboratori, le lezioni interattive, le visite didattiche… Basta guardarmi intorno, e non c’è parco che non ospiti gite orientate alla botanica, non c’è fattoria che non sia anche “fattoria didattica”.

Insomma, questi bambini si erano appena affrancati dalla frontalità, che subito ci sono ricascati, e attraverso un canale molto più distraente: il video.

Penso che un diverso discorso valga per gli adulti. Io personalmente mi trovo molto incentivato a seguire un video che spiega dei concetti, anche complessi.

Non vi trovo poi così tanta differenza da una vera e propria lezione frontale. 

Va detto che in una persona della mia età le naturali inclinazioni hanno ormai un ruolo marginale: la mia generazione è abituata a leggere testi complessi, a scriverne, e forse siamo stati gli ultimi prima del calo inesorabile delle capacità di scrittura che gli insegnanti di lettere unanimamente lamentano.

Quindi, in conclusione: da insegnante, magari avrei sofferto per il ritorno sui banchi. Da bimbo, ne sarei stato immensamente felice.