Archives for category: Riflessioni sul futuro

Nemmeno quest’anno potevamo esimerci dal coro abituale di polemiche che accompagnano il festival di Sanremo. Non ho mai parlato di questa kermesse, forse perché con un certo velato snobismo l’ho considerata una forma di non-cultura.

Ma ci provo quest’anno, perché avendolo visto quasi per caso ho notato un divario evidente e incolmabile con quello che Sanremo era almeno fino a 10 anni fa. 

Innanzi tutto, devo dire che il format si sta davvero svecchiando. Per chi è abituato a guardare la tv con una certa regolarità, si nota immediatamente com altri programmi in prima serata siano rimasti lenti, farraginosi, adatti a riempire il tempo.

Differenza abissale con i contenuti che nascono per brevi lassi di tempo libero, come i film – sempre più brevi, ormai rimaniamo dentro l’ora e mezza quasi sempre! – e le ormai inflazionatissime serie tv, pensate per un pubblico che dopo 30-40 minuti già si annoia, e preferisce riprendere la storia da dove l’ha lasciata il giorno prima o la settimana prima, come un feuilleton. 

Ma un’altra grande differenza sono i cantanti in gara. Lo so, sto ripetendo qualcosa che è già stato da molti detto, ma una volta i Big erano davvero Big.

Non c’erano dei semi sconosciuti, la cultura musicale era meno granulare, più condivisa.

Oggi certo, non dubito che Geolier abbia un ampio pubblico. Ma un pensionato della Monza-Brianza, senza figli e nipoti, può conoscerlo?

Non è responsabilità degli autori o dei direttori artistici, chiaramente. Si tratta anche di un segno dei tempi: Sanremo non potrà mai tornare a rappresentare una condivisione musicale nazionale, perché la nazione non esiste più, la musica condivisa non esiste più.

Esistono i discografici di successo, le produzioni ricche, e le giovani meteore, che appassiranno al suono del prossimo altrettanto effimero genere musicale.

Quindi no, non chiedetemi di riguardare Sanremo. Una volta m’è bastata!

Sento sempre più spesso persone anche del Nord Italia che utilizzano correntemente il termine “sciapo”. Chiunque abbia visto almeno un film in romanesco, anche non necessariamente stretto, ha imparato a riconoscere questo termine come sinonimo di “insipido”, “insapore”.

Però quando è successo che “sciapo” ha smesso di essere considerato un’esoticheria, ed è diventato italiano?

Ho fatto una piccola ricerca.

“Sciapo” è italiano… ma non troppo 

A una prima rapida ricerca, si scopre che alcuni dizionari enciclopedici definiscono il termine “sciapo” come un regionalismo centro-italiano.

Tecnicamente, quindi, non fa parte della lingua italiana, se non come variante locale – però attenzione: non dialettale!

Etimologia

La parola “sciapo” ha una derivazione dal latino “insipidus,” che significa “senza sapore” o “insipido”. La trasformazione linguistica e fonetica ha portato all’evoluzione del termine nel corso del tempo, passando attraverso varie lingue e cambiando leggermente la sua forma. “Sciapo” in italiano riflette questa evoluzione e continua a essere utilizzato per indicare qualcosa di privo di sapore o poco interessante. 

Ma abbiamo anche una derivazione greca.

L’origine del termine “sciapo” è collegata al termine “sképos,” che significa “inconsistente” o “senza gusto.”

Inconfondibile quindi la derivazione mediterranea.

Cambiamo gli accenti

La cosa che più mi ha divertito durante le mie ricerche su Google è stato vedere la domanda: “come si scrive sciapò?”.

Inizialmente non avevo capito. Possibile che fosse un errore di battitura?

Poi ho ripetuto il termine tra me e me.

E poi ho incontrato un’altra domanda, che mi è stata d’indizio: “cosa vuol dire bravo, sciapò?”.

Bingo.

L’ignoranza diffusa ha colpito ancora, ma stavolta in modo capillare, massificato.

Chapeau. Come ho fatto a non pensarci prima?

Ecco che nell’abisso dei burocratismi, degli anglismi e dei gerghi tecnici che trovano sempre maggiore palcoscenico, torniamo a considerare Chapeau come un termine esotico, dall’origine incerta, entrato a pieno titolo nell’italiano parlato correntemente. 

Il Mukbang, fenomeno nato in Corea del Sud, rappresenta un curioso esempio di come le dinamiche sociali si evolvano nell’era digitale. 

Da giovane mai avrei immaginato che la gente si sarebbe seduta davanti a uno schermo per guardare qualcuno che mangia in modo smodato. Questo comportamento sembra essere una distorsione della condivisione del pasto, un rituale sacro in molte culture, in cui il cibo è spesso il pretesto per riunire, per condividere storie.

La mia generazione ha imparato a considerare il cibo come una componente centrale della socializzazione, un momento in cui la conversazione e il legame umano prendono il sopravvento. 

Il mukbang sembra ribaltare questo concetto, trasformando il pasto in uno spettacolo solitario e voyeuristico. La gente non mangia per soddisfare la fame o condividere un momento di convivialità, ma per intrattenere uno spettatore invisibile.

Sempre più soli

Il Mukbang evidenzia anche la crescente solitudine nella società moderna. Quando ero giovane, non c’erano smartphone o internet, e le persone facevano sforzi per connettersi di persona. Ora, sembra che le persone si aggrappino a queste strane forme di connessione virtuale, come guardare qualcuno mangiare online, per colmare il vuoto delle relazioni umane reali.

Il cibo non è più una risorsa preziosa. 

Qui vengono celebrati apertamente l’eccesso e la mancanza di controllo.

Quindi, non è mia intenzione connotarmi nei miei giudizi come irrimediabilmente passé.

Non vorrei ignorare delle nuove esigenze sociali che potenzialmente emergono da questo fenomeno.

Certo, non mi vergogno di dire che mi dispiace vedere quello che per me è un immane quanto assurdo spreco di cibo.

Perché innanzi tutto si tratta spesso di cibo spazzatura, quindi è un messaggio non mandato in direzione dell’educazione alimentare. Questo è il primo spreco.

Ma in più, siamo davvero sicuri che queste star del web non vadano poi a vomitare tutta l’abnorme quantità di cibo che hanno ingurgitato?
Come può essere sana una cosa simile?

Dunque, ci ho provato. 

Ho cercato di evitare ogni facile boomerismo (come dicono ora) e con la mente più chiara ho provato ad avvicinarmi alla musica trap.

Innanzi tutto, ho avuto uno scoglio di comprensione: dev’esserci un modo di parlare che fa risultare questi “artisti” riconoscibili tra di loro.

Difetti di pronuncia ostentati, labbra lasse, fischi, stonature corrette dall’autotune.

Forse sono scelte artistiche che non comprendo, non avendo l’orecchio educato?

In ogni caso, non capivo proprio cosa dicessero.

E pare sia importante, in questo settore, dove ormai il missaggio e gli effetti sonori sono abbastanza standardizzati, in mano alla case discografiche/produttori.

Quindi, mi ci sono messo d’impegno, ascoltando decine di testi insulsi ed autoreferenziali, con calembour vacui.

Dubito che questi contenuti possano ambire all’universalità, dato che sono così appiattiti sul gergo e sulla quotidianità strettissima.

Poi, molti riferimenti che non capivo e che ho cercato sono stati connessi a dei “trend”.

Trend…?

I trend sono, molto semplicemente, delle tendenza che emergono sui social network, e che infuriano come vox populi per una manciata di settimane.

Non nominare i trend giusti è un modo sicuro per essere irrimediabilmente tacciati di boomerismo.

Al di là di ciò vorrei scrivere qualche altra parola sulla musica che ho ritrovato in questi brani.

Ecco fatto!

Capita spesso camminando per il centro di incorrere in fenomeni antropologici quantomeno studiabili. 

Mi riferisco non solo alla variabilità del milieu che popola le strade, in quanto a classe sociale, appartenenza religiosa visibile, manifestazioni di maggiore o minore educazione, ecc.

Stavolta vorrei parlare più del vestiario. 

Ne ho vista di gente mascherata. Ho visto dei buttadentro alle prese con l’invito dei passanti nel loro locale, bardati delle peggiori divise, anche con 40 gradi all’ombra. 

Ho visto persone combattere contro il caldo a suon di capi d’abbigliamento succinti, ma anche dei look che ho trovato molto curiosi in giovanissimi e a volte persino citazionisti verso mie memorie adolescenziali.

La gente fuchsia

Ho visto uno stuolo di ragazzine e ragazzini con dei capi d’abbigliamento fuchsia e rosa. La cosa mi ha incuriosito ed è bastato una semplice ricerca Google per squarciare il velo di Maya: è uscito il nuovo film di Barbie. 

Immaginavo un’utenza infantile, ma ho scoperto con somma sorpresa che questo emblema prima di rivendicazione femminista, poi di gioco infantile soprattutto femminile, poi di strumentalizzazione del corpo femminile è stato oggetto di diverse polemiche. 

La principale dovuta al fatto che Barbie è stata rivisitata da una nota contemporanea regista femminista, Greta Gerwig. 

La mia ignoranza cinematografica mi aveva comunque consentito di ricordarla come la regista di un riadattamento recente di Piccole Donne, che mi è personalmente piaciuto molto. Ho notato una certa vena che puntava a mettere le luci dell’emancipazione femminile dei personaggi della May Alcott, però tutto sommato non trovo che disturbasse eccessivamente l’intreccio originario.

Ideologie vive

Quello che mi colpisce è la venatura ideologica che percepiscono nell’associare un modo di vestire a un global trend e quindi a una regista femminista. 

Ma non erano morte le ideologie?

Vuoi vedere che mi tocca andare al cinema per Barbie? 

Le valutazioni economiche e contestuali che si potrebbero fare sono molte, ma stavolta vorrei fare un salto nel tecnico. Qual è la differenza tra intelligenza artificiale forte e intelligenza artificiale debole?

Intelligenza artificiale forte

L’intelligenza artificiale forte, anche conosciuta come IA generale, si riferisce a un tipo di intelligenza artificiale che ha la capacità di comprendere, apprendere e applicare la conoscenza in modo simile agli esseri umani. Questo tipo di IA si presta a qualsiasi compito intellettuale che un essere umano può addossarsi. È dotata di autoconsapevolezza, ragionamento e apprendimento autonomo, ma soprattutto è un concetto integralmente teorico, elaborato solo in seno a un dibattito accademico e mai pienamente realizzato.

Intelligenza Artificiale Debole

L’intelligenza artificiale debole, o IA specifica, è quella che è stata progettata per svolgere compiti specifici e funzioni predefinite senza possedere una vera comprensione o coscienza di sé, come i programmi per generare automaticamente immagini, o ChatGPT, o gli algoritmi in grado di riconoscere le espressioni facciali, e molto altro. Questo tipo di IA è limitato nelle sue capacità e può eseguire solo le attività per cui è stata programmata. Abbiamo anche gli assistenti virtuali come Siri o Alexa, ma anche, per entrare nel mondo più business, i filtri di spam nelle mail.

La differenza principale tra intelligenza artificiale forte e debole risiede nelle loro capacità e nelle loro applicazioni. L’IA forte è teoricamente in grado di eseguire qualsiasi compito intellettuale come un essere umano e possiede autoconsapevolezza, mentre l’IA debole è limitata a compiti e funzioni specifici e non ha una vera comprensione o coscienza di sé.

Detto ciò: a chi interessa principalmente un dibattito che non sia speculativo sulla possibilità di creare l’intelligenza in vitro?

Intendo: siamo davvero così ansiosi di ricreare uno scenario fantascientifico in cui le vecchie professioni vengono spazzate via, le catene di comando iniziano a eludere i sistemi democratici e si tecnicizzano? Siamo sicuri che vogliamo l’arte in mano all’intelligenza artificiale forte?
 

Io probabilmente non vedrò la sua ascesa (dell’IA forte) ma posso vaticinarlo: sarà una rivoluzione tecnologica, e soprattutto sociale.

Mi è stato chiesto durante una cena, e ho pensato di riportarlo qui. Lì per lì le idee sono state confuse, e credo sia il caso di dire sempre una parola in più, piuttosto che lasciare nell’opacità.

Definizione di “libertario”

Il termine “libertario” indica un’ideologia politica che enfatizza la libertà individuale e il minimo intervento del governo negli affari sociali ed economici. I libertari credono in una società in cui gli individui sono liberi di fare le proprie scelte, purché non danneggino gli altri o violino i loro diritti.

In termini di politica economica, i libertari sono generalmente favorevoli al capitalismo di libero mercato, a regolamentazioni minime e a un governo di piccole dimensioni che non interferisca con le attività di mercato. Ritengono che il libero mercato crei ricchezza, promuova l’innovazione e l’efficienza e offra agli individui maggiori opportunità di perseguire i propri interessi.

In termini di politica sociale, i libertari sostengono generalmente l’autonomia personale e credono che gli individui debbano essere liberi di fare le proprie scelte su come vivere la propria vita, a patto che non danneggino gli altri. Ciò include il sostegno alle libertà individuali, come la libertà di parola, di religione e di scelta dello stile di vita.

In breve

In generale, il libertarismo è spesso associato a una fede nella responsabilità individuale e in un governo limitato, ed è considerato sul lato destro dello spettro politico. Tuttavia, esiste una notevole diversità all’interno del movimento libertario e i diversi libertari possono avere opinioni diverse su questioni o politiche specifiche.

L’esempio che mi sento di fare, uno dei più pop, è Ron Paul.

Ron Paul, chi è costui?

Le convinzioni politiche di Ron Paul sono radicate nel libertarismo, che enfatizza la libertà individuale, il libero mercato e il governo limitato. Alcune delle sue posizioni sono la politica estera non interventista, la libertà individuale (sostiene la legalizzazione delle droghe, il matrimonio omosessuale e altre questioni legate alla libertà personale).

Abbiamo poi il limite da imporre al governo, di modo che non risulti troppo invasivo nella vita dei cittadini, cosa che nel caso di Ron Paul comprende anche la critica alla spesa pubblica.

In generale, si mira a limitare la repressione socio-politica.

Spero di aver chiarito il dubbio!

Randal Johnson e Robert Stam, i due principali storici del cinema brasiliano in lingua inglese, dividono il Cinema Nôvo in tre fasi, la prima delle quali va “dal 1960 al 1964, data del primo colpo di stato; dal 1964 al 1968, data del secondo colpo di stato; e dal 1968 al 1972”. 

Fase 1

La prima fase è stata caratterizzata dall’opposizione al cinema commerciale in tutte le sue forme, dove il cinema era concepito come politico, e contro il neocolonialismo. In genere, i film della prima fase trattavano “i problemi del lumpen-proletariat urbano e rurale: la fame, la violenza, l’alienazione religiosa e lo sfruttamento economico”.

I film non rifuggivano dalla rappresentazione della dura realtà della vita, ma mantenevano comunque una certa visione ottimistica, forse come riflesso della giovinezza dei cineasti, prevalentemente giovani.

Uno di questi fu Glauber Rocha, che oggi è generalmente considerato il più grande di tutti i registi brasiliani. Il suo primo lungometraggio fu Barravento (Il vento che gira, 1962), storia di una comunità di pescatori bahiani (principalmente afro-brasiliani), che realizza una sintesi dialettica tra alienazione religiosa e progresso e tra metodi di pesca passati e presenti.

Nella sua strana combinazione di elementi realistici, tra cui le riprese sul posto e l’impiego di attori non professionisti, con montaggi eisensteiniani e movimenti di macchina deliranti, Barravento anticipa il secondo lungometraggio di Rocha, Deus e o Diabo na Terra do Sol (letteralmente “Dio e il Diavolo nella Terra del Sole”, ma con il titolo inglese “Black God, White Devil”, 1964), e segna l’originalità del suo lavoro per il nuovo cinema brasiliano.

Dio nero, diavolo bianco è ambientato nel sertão, la leggendaria, inospitale regione del nord-est brasiliano colpita dalla siccità, dove la pioggia arriva di solito solo sotto forma di alluvioni improvvise. Il film combina miti sincretici del nord-est con versi popolari, letteratura cordel e musica indigena brasiliana, sia classica che folkloristica, e stilisticamente mescola la messa in scena di tableaux e la recitazione melodrammatica, girata in tempi lunghi realistici con movimenti di macchina a scatti intervallati da jump-cut.

I personaggi principali sono contadini sertanejo itineranti che interagiscono con i ferventi seguaci religiosi (beatos) del mistico nero Sebastião e con vari banditi, per lo più buoni cangoceiros finiti male, che alla fine vengono risparmiati dal cattivissimo “assassino di cangoceiros”, Antonio das Mortes.

Altri film chiave della prima fase sono l’antimilitarista dialettico Os Fuzis (I fucili, 1964) di Ruy Guerra, che demistifica il misticismo e in cui i personaggi di un giovane soldato, Mário, e di un camionista, Gaúcho, Ganga Zumba (1963) di Carlos Diegues, sulla rivolta degli schiavi, e Vidas Secas (Vite aride, 1963) di dos Santos, un’esposizione definitiva e prevalentemente realista della lotta di una famiglia per vivere nel sertão.

(continua)

 

Vorrei riportare una notizia che ho trovato sulla CNN, e che ha svoltato la mia giornata.

Visto che di recente ho parlato in toni entusiastici di una Salomé rappresentata in un cimitero, torno al cimitero con una festa della birra. Di per sé la festa si era tenuta sul sagrato di una chiesa inglese, la St- Mary di Stockton-on-Tees.

Festività tradizionali o culto dei morti? 

Dalla CNN:

Le fotografie hanno scatenato una tempesta di rabbia sui social media, con i residenti sconvolti che hanno inondato un gruppo Facebook di notizie locali con i loro commenti.

Uno ha scritto: “Questo è un comportamento vergognoso, non solo da parte delle persone coinvolte ma dalla chiesa per aver permesso che questo accadesse. I cimiteri sono luoghi in cui le persone rendono omaggio e ricordano i loro cari, non sono giardini della birra, e quelle lapidi non sono certo sgabelli o tavoli. Qui c’è bisogno di scuse pubbliche”.

Un altro ha detto: “Perché non potevano sedersi sul verde, che è appena fuori, invece che sulle tombe? Penso che sia spaventoso… Che totale mancanza di rispetto per i defunti e le loro famiglie”.

E qualcun altro ha scritto: “Sarei molto arrabbiato se avessi una famiglia sepolta lì”.

Non tutte le risposte sono state negative, tuttavia. Un commentatore ha scritto: “Oh, per l’amor di Dio, le persone si stanno riunendo per divertirsi, sono sicuro che (Dio faccia riposare le loro anime) le persone saranno felici di essere parte di una celebrazione e di un momento felice, per favore godiamoci la vita”.

Un altro ha sottolineato: “La tomba nella foto risale al 1740. Non riesco a capire il vetriolo che c’è qui contro la gente nella foto”.

La difesa istituzionale

Difendendo l’evento, il vicario di St. Mary, il reverendo Martin Anderson, ha detto che era stato in parte organizzato per raccogliere fondi per le riparazioni dell’edificio storico. Tuttavia, si è scusato per qualsiasi turbamento.

Scrivendo sulla pagina Facebook della chiesa lunedì mattina, Anderson ha detto: “Negli ultimi giorni le nostre porte erano aperte ancora una volta ai membri della nostra comunità locale, giovani e vecchi, che sono venuti a godersi la nostra Festa della Birra, a sostenere il business locale e a passare del tempo con amici vecchi e nuovi.

“Attraverso questo siamo stati anche in grado di generare fondi per aiutare a mantenere il nostro bellissimo edificio, oltre ad offrire uno spazio per l’amicizia e la comunità.

 

Tempo e cultura sono spesso percepiti come entità distinte, ma la concezione del tempo, oltre che indissolubilmente caratteriale, è anche culturale.

Mi è capitato per esigenze lavorative di avere a che fare con persone di diversa cultura. Mi aspettavo di interagire con una gamma diversificata di persone e culture, ma non mi ero mai reso conto che anche all’interno di un solo piccolo paese come l’Italia, possono coesistere due culture distinte, ciascuna con un modo diverso di pensare al tempo.

Le due concezioni del tempo

Una è fortemente guidata da esso; l’altra lo considera in modo blando, dando più peso alle interazioni personali e alle relazioni. Entrambe le priorità sono importanti negli affari, ma cosa succede quando, per esempio, si lavora in una cultura che dà più importanza al tempo e al rispetto delle scadenze e si deve interagire con una cultura che non lo fa?

Fai i tuoi compiti. Imparerai con l’esperienza, ma fare ricerche sulla cultura con cui lavorerai può risparmiarti molti potenziali passi falsi. Il modo più veloce per farlo è semplicemente parlare con le persone con cui lavorerai. Anche se lavorate per la stessa società madre, sedi diverse hanno protocolli e operazioni diverse. Le persone spesso sono disposte a condividere aspetti della loro cultura quando vedono che vuoi far funzionare il rapporto. A loro volta, potrebbero essere più inclini ad essere comprensivi anche verso le vostre differenze culturali.

Comunicare nel contesto della cultura. Per convincere persone di diverse culture a rispettare una scadenza importante, fate appello a ciò che apprezzano. Se si tratta di mantenere buone relazioni, sottolineate come il mancato rispetto di una scadenza danneggerà le relazioni e provocherà una perdita di fiducia.

La comunicazione digitale non è risolutiva

Non dare per scontato che la comunicazione digitale superi le barriere culturali. Diciamo che mandi un’email a qualcuno in Giappone e ti aspetti una risposta veloce a una semplice domanda… ma poi non hai notizie fino al giorno dopo o giorni dopo. Perché potrebbe essere così? Beh, la cultura commerciale giapponese premia il consenso di gruppo. La persona a cui hai inviato l’e-mail potrebbe consultare i membri del suo team e i suoi superiori prima di darti una risposta. Quindi è premurosa e rispettosa, piuttosto che menefreghista, ma questo potrebbe non trasparire dall’email. Puoi chiedere educatamente cosa sta causando il ritardo e gestire le tue aspettative di conseguenza la prossima volta che incontri una situazione simile con qualcuno del Giappone o dell’Asia orientale. La pazienza è la chiave.

Non esiste un approccio unico per affrontare le differenze interculturali. Quando lavorate in più culture, dovete assumere il ruolo di un camaleonte, cambiando i colori a seconda del vostro ambiente. Questo è più facile a dirsi che a farsi, ma raggiungere una vera competenza interculturale non deriva solo dalla conoscenza, ma anche dall’osservazione continua e dalla pratica adattiva.