Archives for posts with tag: Paolo Giorgio Bassi

Mi chiedevo da ragazzo cosa significasse nella poetica dell’arte il non-finito. Nel regolare percorso della storia dell’arte scolastica, si arriva al periodo della vecchiaia di Michelangelo. L’accurata tecnica di levigatura del marmo, da lui perpetrata come un rituale sacro, comincia a scemare nei quattro Schiavi. Così vengono chiamati posteriormente i quattro uomini sbozzati grezzamente nel marmo, nell’atto di liberarsi da simboliche e letterali catene.

Il mio ricordo scolastico è sicuramente sfumato dal passare degli anni, ma sono abbastanza sicuro di aver legato indissolubilmente il concetto di modernità a quelle statue incompiute. Che poi, nella storia della critica d’arte ci sia sempre un certo ammicco verso la vaghezza, è una considerazione piuttosto ordinaria.

Il non-finito era ora descritto come necessità dell’artista, ormai famoso: doveva spostarsi da una città all’altra e da una commissione all’altra, e non poteva certo trascinarsi i manufatti con sé. In certi altri casi, e malricordo se fossero gli schiavi, il pezzo di marmo si rivelava inadatto per la scultura. Secondo la sua personalissima e celeberrima visione dello sbozzare, già nel blocco grezzo è insita la figura. Lo scultore come un fedele sacerdote/artigiano estrae significato già contenuto nella pietra che pare inespressiva. Quindi, era come se il blocco si rivelasse erroneamente interpretato.

Lo smaliziato fruitore vede l’errore scultoreo, o la necessità pratica di abbandono. O addirittura, ricordo certi compagni dalla pragmatica malizia, la pigrizia dello scultore troppo affermato.

La modernità si collocava, nella mia mente, a questo punto. Senza indulgere in interpretazioni a posteriori, o in critica d’arte, che non è il mio campo:

E’ incredibilmente moderno che un’opera abbandonata per incuria, fatta da un Nome e un Cognome rinomato, venga comunque conservata, discussa, tenuta viva.

Gli schizzi di Picasso, modernissimi e strapagati dagli acquirenti, sembrano molto più simili all’idea di opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica, come voleva Benjamin, piuttosto che alle ultra-venerate reliquie. Anche se all’occhio non esperto potrebbe risultare il contrario.

Il concetto di proprietà culturale è ovvio che si leghi a doppio filo a quello di retribuzione della stessa. Ne ho parlato in tre occasioni, da un lato valutando la retribuzione per coloro che contribuissero al patrimonio culturale digitalizzato. Dall’altro considerando che contribuire al patrimonio collettivo non esula dal riconoscimento della proprietà intellettuale. Considerando questo riconoscimento, non si può esulare da una retribuzione.

I cultural data

Però non ho considerato tutti gli aspetti della questione: di chi sono i dati culturali che fanno parte di una banca dati (perdonate il gioco di parole) reperibile online? Innanzi tutto, bisogna scomodare un nuovo conio, il termine “cultural data”:

Il termine “cultural data” è stato coniato da Lev Manovich, scrittore e docente di Computer Science Program delle City University di New York nel 2007 e ripreso nel 2014 dall’archeologo Neil Asher Silberman, sulla rivista giuridica International Journal of Cultural Property profetizzando il passaggio da beni culturali “materiali” a cultural data ossia riproduzioni, in formato digitale, di opere d’arte o monumenti esistenti o, più in generale, il corredo di informazioni culturali in cui l’arte è smaterializzata.

(da Il Sole24Ore)

Digitalizzare la cultura

Qui il caso della proprietà intellettuale è ben diverso dal caso di Diderot, di cui ho parlato. E’ diverso nella misura in cui il contributore dell’Enciclopedia è autore anche morale del contenuto. Ad esempio, in una voce su un autore letterario, sarà comunque l’enciclopedista il responsabile dell’organizzazione dei pensieri che sottosta alla voce in questione. L’autore letterario, proprietario della propria opera, non potrà rivendicare anche il possesso su quest’altra, frutto di un’altra elaborazione intellettuale.

Il caso dell’editore

Ci può aiutare a dirimere la questione, a mio parere, il caso dell’editore. In che misura l’editore e il distributore sono proprietari del materiale intellettuale ceduto? Ci sono dei contratti e delle percentuali di utilizzo consentito (nel caso della fotocopia, ad esempio) che regolano questo tipo di proprietà.

Ma il caso dei cultural data è diverso. (Continua)

(continua dal precedente sul rapporto tra cultura aziendale e finanza)

In primo luogo, una cultura aziendale positiva ha buone ricadute sulla reputazione del brand. I clienti sono fidelizzati e motivati, così come i dipendenti. Ci sono diversi studi che provano i modo schiacciante come un alto livello di engagement dei dipendenti porti a una decrescita del turnover.

Infine, la giusta cultura aziendale promuove cambiamenti positivi con maggiore innovazione e nuovi prodotti, che possono stimolare la produttività o espandere la base di clienti di un istituto finanziario. 

A questo proposito cito di nuovo un articolo di Forbes in cui si rilanciano le parole di John Chambers, ex amministratore delegato di Cisco.

Chambers sostiene che “il 40-50% delle Fortune 500 non esisterà più entro un decennio”. Secondo Chambers, l’attuale crisi è un momento spartiacque in cui sopravvive solo chi ha le forze e le caratteristiche adatte per sopravvivere.

Anche se resta da vedere quanto saranno efficaci i documenti che consigliano alle istituzioni finanziarie e ad altri settori di adottare la cultura “corretta”, non c’è dubbio che una cultura positiva e innovativa sia fondamentale per il successo di qualsiasi azienda. È uno studio senza fine, come del resto prevede l’imprenditorialità e la consulenza di un certo livello.

A cultura aziendale cambia nel tempo, e il mondo dei prodotti finanziari non può rimanere indietro.

C’è un fatto accaduto questo settembre che vale la pena menzionare, se parliamo di cultura aziendale e finanza: la Monetary Authority di Singapore, una delle principali autorità di regolamentazione finanziaria del mondo, ha pubblicato due documenti che parlano di cultura. 

Il primo documento si concentra su nove risultati che l’autorità ritiene debbano essere raggiunti da tutte le istituzioni finanziarie, il secondo cinque risultati che le istituzioni finanziarie dovrebbero raggiungere per rafforzare la responsabilità e promuovere un comportamento etico.

Una cultura aziendale nuova

Welfare, benessere psicologico sul posto di lavoro, inclusività… La cultura aziendale vira negli ultimi anni sempre più decisamente verso un miglioramento di standard, ma anche verso una creazione di standard condivisi, orientati al benessere globale dei dipendenti e dirigenti e a un migliore bilanciamento vita/lavoro. 

Dall’intrattenimento all’industria tecnologica, le aziende si stanno riorientando verso nuovi standard lavorativi .

Quindi, perché concentrarci nello specifico sul settore finanziario?

“Cultura” come norme implicite

In un articolo su Forbes ho letto il parere di William Dudley, ex amministratore delegato della Federal Reserve Bank di New York. Dudley ha descritto la cultura come “le norme implicite che guidano il comportamento in assenza di regolamenti o regole di conformità”. 

Andrew Bailey, governatore della Banca d’Inghilterra, ha detto invece che la cultura è “ovunque e in nessun luogo”. 

Insomma, senza voler partecipare alla disputa medievale sugli universali, e quindi stabilire se la cultura esiste o meno, mi sento di assentire anche con Bailey: spesso non serve un codice scritto per affermare come una serie di comportamenti siano radicati in un gruppo sociale (in questo caso, in un ambiente lavorativo). Semplicemente, vengono messi in pratica.

Forse, e questo lo aggiungo io, il ruolo dell’arte e della letteratura è proprio questo, cogliere l’in-standardizzabile sotteso al modo in cui agiamo e ci comportiamo con i nostri simili.

Se è buona arte, senz’altro.Ma al di là di queste definizioni, vediamo come finanza e cultura aziendale coesistono e perché è fondamentale una loro interazione proficua.
(Continua)

Oggi ci sono i funerali di Stato della regina Elisabetta, ma dato che a noi interessa l’economia britannica, eviterò di addentrarci nel gossip.

Il regno di Elisabetta in dati 

Il PIL ha visto dei cali e dei boom molto importanti. La crisi finanziaria del 2008 – vedete la banca britannica Northern Rock – è stata uno dei problemi che hanno più impattato sul calo repentino che ha interessato la produttività di quell’anno.

Le nascite sono state favorite dai migranti, il che ha creato una società decisamente più plurale.

Il Commonwealth è cresciuto, dai 5 stati iniziali che ora sono 53. Parliamo di un impero britannico considerato grande a livello globale, con gli errori correlati al colonialismo che tutti conosciamo, e che specialmente per noi italiani privi di un corrispettivo sono ancora più evidenti – guarda un po’!

Le lauree femminili sono cresciute moltissimo dal 1950 a oggi.

I salari reali sono sempre riusciti a battere l’inflazione, tranne nell’ultimo periodo. Hanno sempre avuto più potere d’acquisto rispetto ai prezzi.

Se dovessimo fare una media della crescita dei salari, abbiamo un +2,27%. 

Per quanto riguarda l’import, la Cina sostituisce l’Europa. Dall’Europa occidentale arrivano gran parte delle importazioni ed esportazioni, e nel mentre decrescono Canada, Australia, Sri Lanka, Sudafrica e India.

Questi sono i fattori cambiati con il regno di Elisabetta II, che oggi salutiamo.

Nulla è meno conoscitivo e più affascinante del fenomeno statistico dell’overfitting. 

Ora che siamo in clima di elezioni politiche, nulla è più attuale, immersi come siamo in costanti previsioni, poll preventivi, sondaggisti, strategie enunciate in modo da cinico a sempre più accorato.

Ma rimaniamo ancorati alla realtà: non c’è davvero modo di sapere come andrà un’elezione. Il più fine analista e stratega politico non potrà infatti tracciare con precisione non solo i sommovimenti del conteggio di un sistema elettorale misto e difficilmente prevedibile dato che sono state eliminate le preferenze, ma anche la “pancia” degli indecisi.

Gli indecisi sono infatti difficilmente prevedibili.

E qui torniamo al fenomeno dell’overfitting.

Cosa significa overfitting

L’overfitting o sovradattamento è un termine della statistica che descrive un modello statistico molto complesso che sembra prevedere un fenomeno, ma in realtà si sta solo adattando ai dati osservati.

Ciò accade perché tale modello ha un numero eccessivo di parametri rispetto al numero di osservazioni, e come la scienza ci insegna, la conoscenza viene data da un connubio oculato tra empirismo e teoria.

È quindi evidente che l’overfitting sia un problema importante durante i sondaggi politici, così come in tutti gli schemi che ambiscono a essere previsionali. Non dobbiamo lasciare che le regole del nostro pensiero soverchino mai l’osservazione umile e scientifica della realtà.

Per quanto una persona conosca una lingua, ci sono termini che solo i madrelingua sanno pronunciare correttamente. Questa difficoltà si estende ad alcuni fonemi, gruppi vocalici o consonantici, ma quando parliamo di intere parole, allora esiste un termine specifico.

Cos’è lo shibbòleth

Esistono alcuni termini o intere frasi particolarmente complessi da pronunciare per il parlante non nativo, e si chiamano shibbòleth. Innanzi tutto, attenzione a non confondere lo shibbòleth con lo scioglilingua, difficile da pronunciare anche per i parlanti madrelingua. 

Il termine shibbòleth in realtà deriva dal secondo libro dei Giudici della Bibbia cattolica e significa in ebraico “spiga”. Ma ben più del suo significato è interessante il fatto che questo termine venisse usato come una sorta di parola d’ordine.

La storia

Infuria la battaglia tra Galaaditi ed Efraimiti.

Le armi sono quasi pari, il combattimento si svolge all’ultimo sangue, e alla fine i Galaaditi hanno la meglio.

Gli Efraimiti sono dunque in fuga, ma gli avversari non vogliono lasciarli scappare vivi.

Mentre gli Efraimiti stanno guadando il Giordano, i Galaaditi li bloccano chiedendo una parola d’ordine: il termine shibbòleth.

Impossibile da pronunciare per gli Efraimiti, che venivano così riconosciuti e uccisi durante la fuga.

Il ruolo sociale dello shibboleth

Può accadere che il parlante di una comunità linguistica sia totalmente all’oscuro del fatto di non saper pronunciare come si deve uno shibboleth, e questo evento può diventare macchiettistico e dare luogo a sipari divertenti.

In fondo l’imitazione degli accenti stranieri, di cui il nostro migliore cabaret è ricolmo, si basa principalmente sul fatto che ci sono shibboleth italiani impronunciabili per stranieri.

Sommerso, attività illegali e passibili di condanna… Tutto ciò fa parte dell’ampio contenitore che in economia chiamiamo “non osservato”. In sostanza, si parla di tutto ciò che sfugge alla rilevazione diretta, comprendendo quindi anche i contratti e le transazioni di denaro informali, che non vengono registrati in un sistema centralizzato. 

Per economia non osservata si intendono tutte quelle attività economiche che per diverse ragioni non risultano direttamente rilevabili. Le Nazioni unite hanno sistematizzato le categorie che possono rientrare all’interno di questa definizione. 

Si parla di attività non registrate, perché impossibili da tracciare da parte delle imprese stesse, oppure da chi si occupa di raccogliere le statistiche. Oppure si parla dell’economia sommersa, ovvero tutti quei traffici economici non dichiarati al Fisco, tra cui l’economia informale. 

Infine, abbiamo anche ovviamente i lavori e i traffici commerciali illegali, da sempre visibili al radar della statistica solo attraverso analisi di merci sequestrate, denunce di furto in qualche caso, o anche semplice visione attorno a sé di fenomeni che si conoscono benché non siano inquadrati da analisi specifiche.

Una zona grigia, insomma. 

Quando si calcola il PIL bisogna anche essere in grado di considerare l’economia non osservata.

Quel che è più interessante, soprattutto per i neofiti dell’economia, è che non si parla di ricchezza in quanto tale, ma piuttosto di valore aggiunto, ovvero la differenza tra il valore finale e quello dei beni necessari a produrlo.

In Europa

Dal 2014 tutti gli Stati Membri hanno dovuto inserire nel Pil anche le stime dei traffici derivanti da prostituzione, produzione e commercio di stupefacenti e contrabbando di sigarette. Anche gli affitti in nero e i falsi fatturati sono stati inseriti nel conteggio italiano.

Secondo l’ISTAT parliamo di 203 miliardi di euro di economia non osservata in Italia nel 2019.

Una cifra in costante calo, il che può significare sia la maggiore abilità di occultamento da parte di chi si occupa di economia non osservata, sia una inversione di tendenza.

 

Chissà!

Oggi l’analisi dei mercati si preannuncia più difficile del solito. I mercati sembrano in tumulto e le criptovalute stanno ancora soffrendo dopo il recente crollo.
Ma andiamo con ordine.

Come vedere il sell-off di ieri

C’è ancora spazio per scendere, sembrano dire alcuni analisti di rilievo, e mi sembra una considerazione sensata.

Il movimento dell’S&P 500 di lunedì ha spinto l’indice di riferimento al 20% dai suoi massimi precedenti.

Ma l’S&P 500 è pronto per un ulteriore ribasso dell’8% dopo aver subito un grosso crollo, complice la generale incapacità di superare alcune resistenze e la mancanza di segnali rialzisti da parte degli indicatori.

Tutto ciò avviene fondamentalmente perché molti investitori sentono, in lontananza ma ben distinto, l’odore della recessione.

Altri fattori da monitorare

Un altro motivo va sommato a questo quadretto: il rialzo dei tassi, sia da parte della BCE, sia da parte della Fed.

Secondo il principale stratega azionario statunitense di RBC Capital Markets, è assai probabile che avremo un rally di mercato “rapido e furioso”.

Gli investitori dovrebbero comprare dei titoli sottovalutati e ad alto rendimento – è facile rendersene conto consultando dividendi e rendimenti di cassa liberi, a fronte di valutazioni insolitamente basse.

Piccole barchette di banconote: questa è la modalità che l’artista Carla Zaccagnini ha scelto per rappresentare il suo personalissimo concetto di inflazione.

A dispetto del nome, questa artista non è italiana, bensì di origine argentina, ma con una lunga permanenza in Brasile, e attualmente divisa tra Brasile e Svezia, dove insegna all’Accademia di Belle Arti.

Un incrocio di identità che qualcosa hanno in comune con l’inflazione: da un lato la Svezia, emblema di welfare e debiti in regola, dall’altro l’Argentina, Paese famigerato per aver dichiarato bancarotta per ben 9 volte. E infine, il Brasile, che cambia valuta in media ogni tre anni, il che secondo quanto detto dall’artista ai microfoni del The New Yorker dovrebbe rappresentare un’ulteriore spersonalizzazione del cittadino. 

In fondo, la valuta non è essa stessa simbolo di un Paese? 

Tralasciamo le considerazioni che si possono fare sulla “nostra” eurozona, dove l’immedesimazione con la nuova valuta forse non ha funzionato a dovere in tutte le fasce sociali. I sondaggi d’opinione del passaggio dalla lira all’euro ce li ricordiamo, come ci risuonano ancora nelle orecchie i proclami politici di chi avrebbe piuttosto rivoluto una valuta nazionale.

Non sempre le argomentazioni a suffragio di queste tesi erano convincenti, o quantomeno costruite. Spesso erano addirittura pressoché assenti, il che mi porta a ribadirlo: anche in questo caso, la valuta non era tanto una considerazione economica, quanto piuttosto un pungolo di nazionalismo, un rigetto dell’Altro, della centralizzazione da parte di un’autorità esterna. In poche parole, un particolarismo.

Ecco che quindi quest’opera che rappresenta l’inflazione in un maniera così visiva, con il non-simbolo, informalissimo origami della barchetta, è proprio questo: la messa in discussione del principio di nazionalità passa anche dalla celerità con cui una valuta nasce e muore, lasciando alle persone le energie prosciugate, e il desiderio di considerare la valuta non più rappresentativa del nazionalismo, ma pur sempre degna d’interesse, presente.