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Abbiamo il mellotron, il sitar e il clavicembalo elettrico. No, non è una barzelletta, ma l’organico strumentale di Strawberry Fields. 

La canzone è anche famosa per il suo sound distintivo, creato accidentalmente durante la produzione, e diventato traccia indelebile per future psichedelie.

“Strawberry Fields Forever” è stata una pietra miliare nella carriera dei Beatles e ha segnato una svolta nella loro musica, aprendo la strada a esperimenti sonori più complessi nei loro successivi lavori. Ma il vero motivo per cui vi sto parlando di Strawberry Fields non è un Amarcord della mia adolescenza, bensì un pretesto per parlare di una tecnica che mi ha sempre affascinato: oggi parliamo del flanging.

Flanging

La tecnica di registrazione tramite flanging è un effetto sonoro ottenuto attraverso l’uso di due copie dello stesso segnale audio, leggermente sfasate e quindi messe insieme. Questa tecnica è stata sviluppata negli anni ’60 utilizzando apparecchiature analogiche, come i registratori a bobina e i mixer a nastro.

Qui il segnale audio originale viene diviso in due: uno viene mandato direttamente al mixer, mentre l’altro passa attraverso un dispositivo chiamato “unità di flanging”. 

Questa unità di flanging modifica il pitch del segnale in uscita in modo periodico, creando un effetto di “chiara-oscuro” o di “ondulazione” nel suono. A questo punto il segnale flangiato viene mescolato con il segnale originale. Lo sfasamento genera un’interferenza tra i due segnali che causa delle variazioni nel suono, generando un effetto distintivo che sembra un “vortice” o una “rotazione” nel campo stereo. 

Come controllare il flanging

L’effetto di flanging può essere controllato variando la velocità e la profondità dello sfasamento del segnale, permettendo di ottenere differenti risultati sonori. Potete sbizzarrirvi con strumenti e contesti diversi. Oggi, poi, gli strumenti digitali consentono di applicare tutto a qualsiasi cosa, rendendo secondo me un po’ più noiosa la fruizione.

Ma a me piace ricordare come nascono le cose, e quanto contava in epoca analogica l’invenzione di un nuovo sound.

Il concetto di proprietà culturale è ovvio che si leghi a doppio filo a quello di retribuzione della stessa. Ne ho parlato in tre occasioni, da un lato valutando la retribuzione per coloro che contribuissero al patrimonio culturale digitalizzato. Dall’altro considerando che contribuire al patrimonio collettivo non esula dal riconoscimento della proprietà intellettuale. Considerando questo riconoscimento, non si può esulare da una retribuzione.

I cultural data

Però non ho considerato tutti gli aspetti della questione: di chi sono i dati culturali che fanno parte di una banca dati (perdonate il gioco di parole) reperibile online? Innanzi tutto, bisogna scomodare un nuovo conio, il termine “cultural data”:

Il termine “cultural data” è stato coniato da Lev Manovich, scrittore e docente di Computer Science Program delle City University di New York nel 2007 e ripreso nel 2014 dall’archeologo Neil Asher Silberman, sulla rivista giuridica International Journal of Cultural Property profetizzando il passaggio da beni culturali “materiali” a cultural data ossia riproduzioni, in formato digitale, di opere d’arte o monumenti esistenti o, più in generale, il corredo di informazioni culturali in cui l’arte è smaterializzata.

(da Il Sole24Ore)

Digitalizzare la cultura

Qui il caso della proprietà intellettuale è ben diverso dal caso di Diderot, di cui ho parlato. E’ diverso nella misura in cui il contributore dell’Enciclopedia è autore anche morale del contenuto. Ad esempio, in una voce su un autore letterario, sarà comunque l’enciclopedista il responsabile dell’organizzazione dei pensieri che sottosta alla voce in questione. L’autore letterario, proprietario della propria opera, non potrà rivendicare anche il possesso su quest’altra, frutto di un’altra elaborazione intellettuale.

Il caso dell’editore

Ci può aiutare a dirimere la questione, a mio parere, il caso dell’editore. In che misura l’editore e il distributore sono proprietari del materiale intellettuale ceduto? Ci sono dei contratti e delle percentuali di utilizzo consentito (nel caso della fotocopia, ad esempio) che regolano questo tipo di proprietà.

Ma il caso dei cultural data è diverso. (Continua)

Di opere storico-artistiche a rischio, nella nostra prolifica penisola, ne abbiamo molte. Ma una di quelle che mi stanno più a cuore in questo momento è il Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze, al momento oggetto di un monitoraggio per verificare se ci sia la necessità di una revisione conservativa. 

Il monitoraggio fa parte del piano comunale Florence I care, un progetto nato per valorizzare il patrimonio storico artistico cittadino in un’ottica di recupero non solo artistico, ma anche urbanistico.

Firenze è una città splendida, a parere di molti la più bella città italiana. Non so se assentire, anche perché non necessariamente una nostra particolare affezione verso una città dovrebbe influenzarci in un giudizio di merito.

Però sì, va detto che se consideriamo il periodo di massima fioritura artistico-economica della penisola italica, non possiamo non partire dal ‘400-500. Ed è proprio qui che hanno vita delle grandissime esperienze artistiche delle nostre migliori città d’arte, tra cui Firenze è capofila.

Attenzione: parlo solo di una questione artistico-urbanistica. Quindi, parlo di Santa Maria Novella e degli Uffici, e non del David come simbologia del riflessivo uomo moderno, né del fatto che la lingua dello Stato Italiano è stata mutuata sul calco fiorentino.

Quindi, beni materiali e non immateriali.

E Firenze, e il soffitto di Palazzo Vecchio in primis, nasce sulla cresta di quest’onda di rinnovamento architettonico e urbanistico, in un modo molto più centralizzato rispetto ad altre città rinascimentali.

Fa piacere constatare come il progetto sia stato finanziato grazie a una erogazione liberale dell’azienda Pramac. A segno che la cultura e il patrimonio artistico hanno ancora un certo ascendente. O almeno, se vogliamo gettare la maschera naif, a segno che la società civile apprezza ancora molto che un’azienda eroghi a favore del bene comune.

Il tessuto imprenditoriale italiano e mondiale sta cambiando. Inutile sperare che tutto ritorni alla normalità presto: è probabile che, come le crisi economiche che hanno colpito la seconda metà dello scorso secolo, anche questa pandemia abbia strascichi lunghi.

È molto interessante seguire le strategie specificamente antivirus, che sono in corso da parte di aziende di diversi settori, per quanto loro compete. Dal tessile all’automobilistico, l’obiettivo è contenere il contagio attraverso il prodotto stesso, quindi parliamo di adattamenti tecnologici.

Se da una prospettiva macroeconomica il panorama di crisi per tutte le piccole e medie imprese comincia a diventare drammatico, soprattutto in alcuni settori, più da vicino è interessante fare una piccola rassegna delle idee delle aziende nel mondo, per vedere come hanno reinventato le proprie linee prodotto.

Questa sarà una rassegna tecnologica, e il meno possibile pubblicitaria. Inizio dall’automotive, e proseguo nei prossimi articoli con altri spunti che raccoglierò nelle mie ricerche.

L’automotive

La Hyundai ha ideato un sistema di sanificazione dell’abitacolo mentre il passeggero non è a bordo. La procedura avviene attraverso i raggi UV, e dovrebbe evitare il contatto tra i raggi, come è noto dannosi per l’essere umano, e le persone presenti in auto.

È evidente che la Corea voglia mantenere una buona posizione per quanto riguarda sia l’innovazione tecnologica, sia la lotta al virus.

Ma nell’automotive abbiamo anche diverse spinte da diverse case automobilistiche per migliorare la qualità dell’aria nell’abitacolo. I metodi erano già noti, e riguardano gli impianti di condizionamento e riscaldamento.

La Cina sta anche introducendo dei metodi di sanificazione all’ozono, l’elemento più utilizzato dai nostrani gestori di esercizi commerciali e ristoratori perché inodore, anallergico. 

L’ozono infatti si lega alle particelle, compresi agenti microbici e virali, e li porta a temperature che questi non possono sopportare. Non lascia residui tossici e non rischia di essere inalato, perché da quanto ho capito è estremamente volatile.

Insomma, il nostro destino è iniziare a portare una fialetta da viaggio piena d’ozono, come la dame ottocentesca memoria con i sali?

Chi lo sa. Proseguiremo nel prossimo articolo con qualche altra strategia. State connessi.

 

 

Una scelta del Comune, quella di offrire le case a un euro sull’Isola Madre di Taranto. 

Quali case

Parliamo di 7 edifici municipali, che verranno affidati tramite il bando presente sul sito del Comune di Taranto per la ristrutturazione o qualsiasi progetto di natura turistica.

L’obiettivo primario è ripopolare l’Isola Madre, sentita come un patrimonio vivo e con ancora diverse emozioni da donare non solo a turisti, ma anche ai residenti. 

Senza eccedere nell’entusiasmo, posso dire che diversi angoli di quella zona meritano un rifacimento, e che vanificare la bellezza storica lasciando gli oggetti nell’incuria non è sicuramente una buona strada da percorrere.

 Fino a quando è aperto il bando

Il bando rimarrà aperto fino al 20 novembre, e consente a imprese, agenzie, società o cittadini di proporre il loro personalissimo progetto per le aree interessate.

L’Isola Madre

Si parla di una colonizzazione risalente all’età del Bronzo, ma se vogliamo attenerci a fatti certificati, quel che sappiamo è che fu colonia greca fin dall’VIII secolo. 
Fu  distrutta dai Saraceni nel 927, e il primo intervento di recupero che se ne fece ce la conserva così come la vediamo oggi.

L’imperatore bizantino Niceforo II Foca decise di riprenderla e rivalutarla, facendosi coadiuvare da un team di architetti greci. L’impianto di allora è quello che vediamo oggi: stradine strette, con chiaro scopo difensivo, che impedissero a grandi eserciti di penetrare nel cuore di questo quartiere, strategicamente tanto importante.

I parametri per l’accettazione delle proposte

Tre i principali parametri per l’accettazione delle proposte: innanzi tutto, l’impatto ecologico, o meglio l’ecosostenibilità. Poi, la destinazione progettuale, immagino dando rilievo alle attività commerciali. 

In terza battuta, a sponsorizzazione, necessaria per garantire la copertura dell’opera. 

Ancora presto per determinare quali saranno le affluenze. Sarà interessante valutare i diversi progetti, soprattutto come cartina al tornasole dello spirito d’iniziativa odierno, visti i grandi scossoni economici e al morale. Soprattutto dei privati cittadini, in questo contesto.

Tutto iniziò con due modellini. Da un lato, il team degli ingegneri di Airbus, supportato da diversi Paesi europei, tra cui NON l’Italia. 

Dall’altro, l’americano Boeing. Era nell’aria, ma la libera concorrenza consentiva all’Europa, per quanto partner commerciale degli States, di scommettere su un diverso modello di velivolo.

Il casus belli

Quale sia il migliore, poco ci importa. Quello che ci interessa è il compromesso al quale si è pervenuti: nessuno pesti i piedi a nessuno. Tutto sembrava filare, finché Germania, Francia, Inghilterra e Spagna hanno deciso di destinare aiuti statali alla Airbus, scatenando nell’ottobre 2019 le ire trumpiane.

Nonostante l’Italia fosse esclusa, alcuni suoi prodotti DOC hanno subito un rialzo doganale del 25%.

È quindi in un clima decisamente teso che è stato accolto il nuovo aiuto di stato promesso da alcuni Paesi europei alla Airbus, deragliata dalla recente pandemia. 

Con i conti quasi in rosso, la compagnia ha bisogno più che mai di un intervento di salvataggio. Già il primo intervento  stato era mal digerito dagli Stati Uniti, che hanno riversato il mal di pancia in uno dei modi consentiti dalla diplomazia internazionale: i dazi. 

Ma su questo secondo intervento è una scommessa: il potere negoziale europeo potrebbe aumentare, visto che anche gli States hanno dato una spintarella ai conterranei di Boeing.

La Wto avrebbe dovuto esprimersi in merito alla questione, ma la pandemia, strano a dirsi, ha posticipato il giudizio ad ottobre, lasciando sostanzialmente un punto di domanda nell’aria.

Salviamo il salame

Diventa immediatamente motivo d’interesse per l’Italia tutelare con un negoziato ad hoc i propri prodotti DOC (perdonate il bisticcio). Ivan Scalfarotto, sottosegretario agli Affari Esteri con delega alle politiche commerciali e i dazi, si è incontrato virtualmente con l’omologo statunitense. 

La lista di proscrizione dei prodotti destinati al rialzo dei dazi verrà aggiornata. 

Sembra che il 12 agosto (questa la data del provvedimento statunitense) il salame sarà salvo. 

 

Non tutti i mali vengono per nuocere, verrebbe da dire considerando chi ha scelto di vedere il Coronavirus come un’opportunità, invece che come una paura sempre dietro l’angolo. 

La criptovaluta

Iniziamo dalla notizia che mesi fa mi ha lasciato piuttosto perplesso. In seguito alla crisi del 2008 numerose frange di investitori che hanno speculato contro i mutui sub-prime si ritrovarono poi premiati, e sembra che sia accaduta un vicenda simile a chi ha deciso di comprare le Coronacoin.

Immesse sul mercato da una società con sede nelle isole britanniche dell’Oceano Indiano, le Coronacoin sono 7,6 miliardi, come la popolazione mondiale. 

Si tratta di un puro e semplice titolo in deflazione, perché – è orribile dirlo, ma questo è il funzionamento della valuta – man mano che si registrano le contagi e morti per Covid, i token delle valute in circolazione calano.

L’ideatore della valuta, Alan Johnson, promette che il 20% del ricavato del progetto sarà destinato alla Croce Rossa. 

Le assicurazioni

Non so se vi è capitato, ma a me personalmente sono arrivate diverse pubblicità di polizze anti-Covid. Mi pare che in realtà siano poco più che delle polizze salute, nella maggior parte dei casi.

Quel che si vede in molti casi è la delega di gestione a blockchain, che dovrebbero rendere automatico e snello il processo della sottoscrizione di queste polizze.

È presto per fare un calcolo costi/benefici; probabilmente vedremo il ricavato di queste soluzioni tra qualche mese.

Il settore biomedico (che però non ha speculato)

Come abbiamo già accennato, il settore biomedico è l’unico vincitore, anche morale, di questa crisi. 

Di speculazione non si tratta, visto che parliamo di un ambito necessariamente in crescita, che potrebbe anche rendere l’Italia più competitiva sul mercato globale.

Allo stesso modo del biomedicale, anche gli strumenti di chat, videochat e simili sono in netta crescita. Com’era inevitabile, visto che l’intero sistema scolastico italiano si è spostato sui vari Meet, Zoom, Whatsapp, eccetera.

Posso dire di aver assistito, incolume, a un’altra rivoluzione.

Nonostante la momentanea interruzione delle domeniche gratis, poi ripristinata da Franceschini nel settembre 2019, le visite dei musei italiani nel 2019 sono state in crescita rispetto al 2018.

Un boom a Pompei

La vincitrice indiscussa è Pompei: le presenze in più sono state 160 mila. Il totale di 4 milioni di biglietti è notevole, considerando le ondate di maltempo che ci sono state durante l’anno, e che hanno penalizzato tutti i siti turistici italiani.

Consideriamo che circa 4 anni fa i biglietti per Pompei erano 2,5 milioni.

Musei piccoli e periferici spesso penalizzati

Essere lontani dalle rotte del turismo può avere i suoi svantaggi. Così è stato nel 201 per i piccoli musei e le piccole gallerie, fortemente penalizzati dagli episodi di maltempo e della chiusura domenicale. A differenza delle grandi gallerie.

I numeri dei big

Perdono visite invece il Colosseo, che registra 100mila presenze in meno rispetto al 2018. 7,5 milioni di presenze totali per il monumento considerato il simbolo dell’Impero Romano, della Città Eterna, e da qualcuno dell’Italia stessa.

Gli Uffizi registrano 4,5 milioni di visite. Quest’anno sono state considerate in aggregato con il giardino di Boboli e Palazzo Pitti.

Questi tre, Pompei, gli Uffizi e il Colosseo, sono i vincitori indiscussi del 2019, per quanto riguarda le presenze.

Numero dei visitatori: non aumenti esponenziali

E’ diversi anni che gli aumenti sono esponenziali, ma il 2019 ha risentito delle due diverse attenuanti del maltempo e della chiusura delle domeniche.

Una nota per Matera: la cittadina ha registrato un 20% in più di visite, in seguito all’elezione di capitale europea della cultura 2019.

Sono ormai una triste realtà, le bombe sull’Iran. Il tweet di Trump del 4 gennaio sembra averlo confermato: siamo in un momento che passerà alla storia. In seguito al tweet l’opinione pubblica, ormai verificata principalmente dalla cartina al tornasole che sono i social, si è scatenata quantificando i danni culturali che una simile operazione avrebbe. 

Ebbene, l’Iran ha tesori culturali inestimabili. Inestimabili. Non solo culla della cultura persiana, di imperi millenari, di biblioteche che hanno salvato i nostri classici sepolti altrimenti sotto un oblio più che certo. L’Iran ha anche monumenti tuttora esistenti, scavi, siti, mosaici di incredibile valore, ma la stessa vita iraniana, a guardarla con gli occhi dell’antropologo, è di per sé minacciata drasticamente dallo spettro della guerra. Sempre che di spettro si possa ancora parlare.

Vediamo alcune delle bellezze più a rischio, indipendentemente dal tweet del presidente USA.

Ne fa un elenco il The Guardian

La prima è la splendida città di Persepolis, un complesso monumentale risalente al VI secolo a.C., progettato per stupire – con una vasta terrazza sopraelevata, grandi scalinate e palazzi e templi in marmo. Qui ci sono molte statue bassorilievi di tori, leoni, creature mitiche e raffigurazioni dell’impero achemenide. 

C’è poi la moschea di Shah Cheragh a Shiraz, traducibile con “Re della Luce”. All’esterno appare per quello che è, un mausoleo meta di pellegrinagigo internazionale. All’interno, la meraviglia: è interamente rivestito di intricati disegni geometrici di tessere di mosaico a specchio. 

Tre delle più antiche chiese della regione sono patrimonio dell’umanità dell’Unesco. La Cattedrale di Vank, vicino a Isfahan, è stata costruita dagli armeni spinti nella zona dallo scià Abbas I di Persia durante le guerre ottomane del XVII secolo.

Vista la nostra fascinazione per le opere architettoniche maestose, non si può non citare, seguendo il The Guardian, i ponti di Isfahan. Parlo dei lunghi ponti coperti dell’ex capitale iraniana, costruiti per lo più nel XVII secolo. Non tanto magniloquenti, piuttosto funzionalissimi: il ponte Khaju, lungo 130 metri, serviva da diga per controllare il fiume Zayanderud, ma anche per attraversarlo. Invece la sua navata centrale era un luogo di incontro pubblico ombreggiato.

Alma Mater è diventato termine che si riferisce alla propria università di appartenenza. a prima di diventare espressione idiomatica, l’Alma Mater Studiorum è l’Università di Bologna.

Il corso di intelligenza artificiale

Curioso che la prima Università del mondo sia anche la prima a delegare alle macchine l’intelligenza. In Italia, chiaramente, non nel mondo, al quale spesso in quest’epoca ci accodiamo per quanto riguarda le scoperte scientifiche e l’innovazione tecnologica.

Studiata in matematica e in informatica, l’intelligenza artificiale non aveva ancora avuto un corso di laurea dedicato. Anche se le indiscrezioni parlano già dell’anno prossimo, non ho modo di prevederlo non conoscendo nessuno in ambiente accademico bolognese.

Attendiamo la cronaca

Attendendo le cronache per avere notizie più certe, possiamo però fare delle speculazioni su questo uovo corso di laurea, o meglio dar forma a delle aspettative.

Quella più pittoresca che ho in questo momento riguarda i robot. Se l’intelligenza artificiale prevederà anche applicazioni pratiche, quale più d’impatto e immediata del robot che comunica con gli studenti? O se non un vero e proprio robot, visto che la robotica è una scienza che occupa molte energie ed è forse più tecnica e da prima linea piuttosto che materia di studio universitario univoco (ma forse), almeno una chat addestrata a rispondere a commenti umani in modo intelligente, sembrando umanoide, almeno a un primo impatto.

“Il corso di laurea sull’IA sarà attivato dal dipartimento di Informatica-Scienza e Ingegneria. Sarà completamente in lingua inglese e si concentrerà sulle discipline fondanti e applicative dell’intelligenza artificiale. Ci sarà però spazio anche per tematiche trasversali come le neuroscienze cognitive e le implicazioni etiche e sociali delle nuove tecnologie. Tra gli argomenti previsti dal piano di studi: visione artificiale, trattamento del linguaggio naturale, data science, ottimizzazione, sistemi di supporto alle decisioni.
Gli iscritti, una volta conseguita la laurea, potranno fregiarsi della qualifica di “specialisti in Artificial Intelligence”: figure tecniche altamente specializzate, con conoscenze informatiche e competenze specifiche su questo argomento, capaci di affrontare la progettazione, la realizzazione e la gestione di prodotti e servizi innovativi. Il mercato del lavoro, infatti, nei prossimi anni si avvia ad una profonda trasformazione. Un cambiamento epocale che coinvolgerà moltissimi ambiti – dai trasporti alla domotica, dalla medicina all’istruzione, dalla sicurezza al mercato dell’intrattenimento – e che la laurea già considera come campi di applicazione”. (fonte)