Archives for category: Paolo Giorgio Bassi

Il numero chiuso è stato deciso a maggio dal Senato Accademico della Statale di Milano (come racconta il Corriere di Milano qui). Vale per i corsi di Lettere, Filosofia, Storia, Beni culturali e Geografia. La scelta era motivata da insufficienza di personale docente, inadeguatezza delle strutture, necessità di messa in sicurezza…

Erano tutte ragioni comprensibili, ma non sufficienti per i collettivi universitari, che hanno fatto ricorso al Tar.

Queste facoltà verrebbero infatti stravolte dal numero chiuso, non solo a livello logistico.

Il numero chiuso in ambito scientifico esiste oramai nella maggior parte delle università italiane. Se ne può ascrivere la nascita alla legge Zecchino 264/99. Erano momenti di assestamento sulla normativa europea in merito alle figure professionali di medici, dentisti e odontoiatri e si cercava con piccoli adeguamenti di mostrarsi rispettosi delle scadenze.

Quella che pareva una garanzia di qualità è in realtà un principio non condiviso da tutti: non posso non pensare ai Mooc (Massive Open Online Courses). I Mooc offrono scorci su argomenti disparati, da ingegneria, a neuroscienze, a letteratura e arti visive. Anche il MoMa di New York propone un bellissimo corso di fotografia. Si stanno diffondendo negli ultimi anni, e sono tenuti anche da università prestigiose, Yale, Stanford, il MIT…

Capisco anche le limitazioni fisiche. Il digitale supera brillantemente le difficoltà legate all’atto di uscire di casa, o al cambiare città o Paese. C’è poi il “free”, in contrasto col prezzo della retta universitaria o del singolo corso.

Ma a livello di reputazione, siamo realmente sicuri che la limitazione dei posti sia un guadagno? O meglio, lo è per le facoltà non-scientifiche? Trovo sterile la constatazione che il mercato del lavoro è tutto fuorché filo-umanista, e di conseguenza senza numero chiuso si potrebbe fomentare un’illusione occupazionale.

Non accampo ragioni biografiche, visto che appartengo a un altro periodo storico. Penso però che limitare l’accesso ai corsi “culturali” significhi limitare un accrescimento culturale potenzialmente massificato.

Non ci resta che aspettare e vedere come si esprimerà il Tar.

Dovessi descrivere la società londinese, dai mille volti e dalle infinite sfumature, probabilmente ripeterei ciò che ho detto precedentemente: la trovo nella sua flessibilità una metafora del mondo odierno, preda di un incessante sviluppo. Come ogni megalopoli ha molteplici ritmi interconnessi fra loro, nelle minime ore di riposo della città, c’è sempre chi va al lavoro e chi invece torna a casa o esce con altre persone. Londra è una città che vive di colori e profumi diversi che mischiano le diverse etnie e le differenti culture. Una cosa rimane innegabile, se lo si vuole, ogni giorno è capace di stupirci e farsi scoprire in modi sempre diversi.

Un modo tutto particolare per vivere questa capitale e scoprirne angoli inediti, è quello di lasciarsi trasportare dalla musica. Anche nel frastuono del progresso, la guida della musica classica riporta in realtà familiari, negozi deserti e bancarelle affollatissime. Non è certo un caso che il più vecchio negozio di dischi di tutto il mondo, lo “Spillers Records”, sia inglese.

A prescindere dal genere musicale a cui ci si appassiona, scoprirne la versione in vinile rimane un modo di vivere e scolare la musica davvero unico, a cui diventa veramente difficile rinunciare.

Società che non vuole perdere una magia passata

In questi anni la vendita dei vinili nella capitale londinese sta prendendo sempre più piede, permettendo così a chi se ne occupa di poter sviluppare idee nuove ed eventi, che permettano anche ai più giovani di venire in contatto con questa realtà. Si organizzano così dj set, concerti, mostre ma anche biblioteche del vinile. Una vera e propria arte quella della musica su giradischi che i cittadini del mondo non sembrano voler abbandonare. Il progresso tecnologico ha aggiunto nuovi modi di fruire la musica, sempre più veloci e privi di ostacoli, tuttavia credo che proprio questo modo vorace abbia lasciato spazio a un’esigenza diversa in molte persone: la necessità di un rito rilassante che accompagni l’ascolto della musica. La ricerca del vinile in pittoreschi angoli delle città, il suo montaggio sul giradischi in una sala silenziosa, accompagnato da una meditazione musicale in poltrona.

Solo lasciando fuori dalla porta le corse frenetiche per risalire i gradini della scala sociale frammentata, tipica del mondo odierno, riuscirete ad apprezzare la calma e la pace di un buon disco.

Giudice severo che scatena emozioni da cui non possiamo fuggire: la poesia torna al centro della cultura milanese con un festival a lei dedicato. Una vetrina interessante, con un particolare sguardo di approfondimento sulla situazione donna oggi e sulla lingua italiana, la più bella del mondo.

Poesia, tema controverso e amore tormentato. La si ama o la si odia, non vi sono spazi nel mezzo. Sia che si parli della poesia con accezione più classica, sia che se ne parli in chiave moderna, questa elevata forma d’arte nasce per descrivere i sentimenti che ci coinvolgono e sconvolgono nel quotidiano. È un giudizio che ci lascia disarmarti, si dirige direttamente alle nostre emozioni, lasciando poco spazio alla logica e alla razionalità. Mi sono sempre stupito di quanta potenza abbia questa arte, di quanto possa far tremare le nostre certezze riuscendoci a leggere dentro. Bastano poche righe e tutto si compie.

Dando uno sguardo alla mia libreria un dolce ricordo mi sopraggiunge: nelle calde giornate primaverili ero solito prendermi qualche istante per me, in quei momenti di calma, di pace, adoravo sedermi nel parco e leggere. Ricordo con piacere Montale. Meraviglioso come ci si possa ritrovare a provare gli stessi sentimenti di uno sconosciuto, come tramite ad una lettura si venga catapultati in una sensibilità del tutto nuova.

La poesia da giudice dell’esistente a concreta opportunità

La poesia è sempre stata un giudice della realtà: quando impietosa ci mostra, senza appello alcuno, la deriva della nostra società, quando senza filtri ci rivela la disperazione che molto spesso siamo noi a creare. Opportunità e gemma di speranza quando la si sfrutta come punto di partenza, come base per non dimenticare.

Come meglio concludere questa breve dissertazione se non proprio con una poesia, una di quelle che lasciano il segno, una di quelle dalla quale non ci si può nascondere. Eugenio Montale:

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

Il mio dura tuttora, né più mi occorrono

le coincidenze, le prenotazioni,

le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio

non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,

erano le tue.

La condanna forte e decisa alla guerra e alle sue atrocità trova in Guernica, la grandiosa opera d’arte dell’artista spagnolo Pablo Picasso, una delle sue denunce più forti ed emotivamente turbanti.

Proprio in questi giorni, il 26 Aprile ricorre l’anniversario del bombardamento del quartiere spagnolo che dà il nome all’opera, bombardamento che colpì non obbiettivi strategici ma gruppi di civili. L’atrocità di quell’avvenimento scosse a tal punto Picasso che in breve tempo stese l’opera dall’enorme grandezza di tre metri e mezzo di altezza e quasi otto di lunghezza. Venne esposta alla Mostra Universale di Parigi del 1937, la cui istallazione ne decise il senso di lettura da destra verso sinistra.

Io ho avuto la fortuna di poter vedere fisicamente questa straordinaria opera, anche se vedere in questo caso particolare risulta riduttivo. Si viene letteralmente sovrastati, travolti e sconvolti. Questa è la sensazione che l’artista vuole far provare a chi si trova davanti a questo capolavoro, per far rendere conto allo spettatore, anche che in minima parte, lo sconvolgimento delle persone strappate alla loro semplice quotidianità. Inutile dire che ci riesce benissimo.

Picasso è un pittore particolare e non amato da tutti, ma che lo si ami o meno, qui non è importante. La totale assenza di colore, la struttura del disegno in cui lo spazio è completamente schiacciato, le figure con i tratti volutamente così deformati, la scomposizione del tutto. Sconvolgente. Io ricordo di essere rimasto scosso da quella visione, probabilmente anche perché chi è della mia generazione la guerra la ricorda e la sente vicina, anche solo avendo ascoltato i vividi racconti dei genitori.

Una condanna che giunge fino ai giorni nostri

Un quadro ideato per rappresentare una strage di civili, gli orrori di una guerra passata, ma guardandolo non si può non percepire quanto Guernica sia attuale.

Le stragi che continuiamo a portarci dietro mettono noi esseri umani sul banco degli imputati, ci ricordano come possiamo essere giudici, testimoni, carnefici e vittime insieme.

Guernica però ci ricorda che c’è anche una speranza, speranza nel cambiamento, speranza che l’esperienza di queste insensate atrocità ci faccia unire in un vivere civile collettivo. Relegando la violenza nel passato, in bianco e nero, come il mondo estremo e polarizzato che sottende.

 

Sia una valorizzazione che una ricapitalizzazione del patrimonio artistico e culturale italiano si stanno rendendo necessarie e stanno avvenendo lentamente. L’ingresso dei privati è recentemente passato alle cronache e naturalmente non mette tutti d’accordo. Sta forse tornando di moda il mecenatismo? Si e no, comunque credo siano importanti nuovi investimenti nei restauri e nella valorizzazione del capitale artistico del nostro paese, in fin dei conti le nostre opere sono numerose ed estremamente preziose. Troppo per essere lasciate deperire.

Questa mattina stavo leggendo un interessante articolo sugli investimenti nell’arte pubblica. Io, come molti credo, sono abituato a concepire l’arte come pubblica e fruibile, tutto ciò che riguarda i finanziamenti e gli investimenti riguardanti questo campo tendo ad associarli a un modo per offrire nuovi servizi alla collettività. L’arte invece ha assunto nel tempo anche un altro significato: quello di mercato. Per fugare ogni dubbio, specifico che non intendo soffermarmi su questo mondo separato dal pubblico interesse, non parlerò di quotazioni, aste, falsi, ma neanche della bontà di un investimento in opere d’arte o di collezionismo.

Il mio ragionamento si è soffermato su un quesito semplice: cosa succede quando un monumento o una importante opera artistica ha bisogno dell’impiego di capitali per un restauro, studio o valorizzazione e questi fondi non si trovano? Se un privato si fa avanti per sopperire questa mancanza di capitali in cambio di visibilità di qualità, è meglio non rendere disponibile l’arte o scendere a compromessi?

Valorizzazione e ricapitalizzazione dell’arte grazie a privati: è davvero un’opportunità?

Esistono fondi privati e imprenditori che mettono a disposizione grandi capitali per il restauro, o la valorizzazione, di alcuni luoghi storico-artistici di grande interesse. A fare più notizia sono stati i “restauri di lusso” messi in opera dalle grandi case di moda, in cambio non solo di visibilità e pubblicità, ma in alcuni casi di un vero e proprio utilizzo privato del bene a cui sono stati destinati i capitali. Probabilmente il caso più celebre è quello che ha riguardato la Fontana di Trevi, restaurata da un’importante casa di moda che ha finanziato i lavori per poi utilizzare la fontana stessa come passerella per una sfilata di grande impatto visivo e mediatico.

L’iniziativa, se mirata a valorizzare il bene pubblico tramite una ricapitalizzazione dei fondi destinati alla tutela del patrimonio artistico, non credo sia da demonizzare, tuttavia credo che l’impatto finale lo potremo valutare soltanto con il passare del tempo. La coscienza artistica che trasmetteremo ai nostri figli e nipoti sarà ciò che farà pendere maggiormente l’ago della bilancia, ricordandoci comunque che il patrimonio artistico dovrà arrivare a loro e alle generazioni successive nelle migliori condizioni possibili.

Un reato fra i più subdoli che si possano compiere ai danni della nostra cultura e del bene comune, credo sia indubbiamente il vandalismo.

La miopia che sottintende è un vero e proprio delitto nei confronti dei nostri nipoti, dovremmo conservare e rendere fruibile per loro un patrimonio artistico e culturale maggiore di quello oggi a nostra disposizione.

Ho in mente un esempio che mi ha fatto riflettere. Ricordate quanto compiuto dal turista australiano nei confronti della Pietà di Michelangelo? Quindici martellate, il braccio sinistro della Vergine staccato, il volto danneggiato nel naso e le palpebre in frantumi. Fortunatamente il danno era rimediabile, tuttavia perché colpire un capolavoro simile?

Eppure questo reato, deve farci pensare, deve farci capire che colpisce tutti noi, non possiamo esserne indifferenti. Come già ho approfondito in un articolo precedente sta a noi tutelare il nostro patrimonio artistico e culturale. Deve prima di tutto diventare un valore civile: quello che trasmetteremo ai posteri è oggi sotto la nostra responsabilità.

L’episodio che ho prima riportato alla memoria non è purtroppo l’unico che ha coinvolto le nostre opere d’arte. Tra gli episodi più tristemente famosi ricordo con dispiacere le dita scheggiate del David di Michelangelo, la deturpazione de Il trasporto del corpo di san Cristoforo del Mantegna. Nella recente storia possiamo invece ben ricordarci i danni provocati da diversi turisti al Colosseo, o alla Barcaccia del Bernini.

Reato, quello del vandalismo, che ci priva di patrimoni importanti

Purtroppo i danni non si fermano a quelli che possiamo vedere, spesso chi non rispetta l’arte decide di volersi portare a casa come souvenir “pezzi” di mattoni, pavimenti o muri. C’è chi addirittura si reca presso scavi archeologici munito di metaldetector o dotazioni simili, per poter rintracciare reperti di valore e rubarli.

Dobbiamo proteggere la nostra arte, per noi, per chi verrà e per ciò che rappresenta.

Il falso può essere un’opportunità? Spesso sentiamo i critici e gli storici d’arte discutere su quanto si possano definire capolavori d’autore le opere andate quasi totalmente perdute e poi restaurate. Sono quindi un falso, poiché ricostruite con colori e materiali non più originali o sono da considerarsi opere d’autore, poiché nella forma rispettano esattamente il disegno dell’originale? Un dibattito interessante che porta con sé molte domande.

Purtroppo queste domande emergono spesso dopo tragedie come terremoti che portano devastazione in tutti gli ambiti. Se pensiamo alla chiesa di Assisi, capolavoro assoluto dell’arte che ha rischiato di andare perduto per sempre con il terremoto che ha distrutto la chiesa, ma anche all’Ultima cena di Leonardo che, a causa dell’incompatibilità della tecnica utilizzata dal Maestro con l’umidità presente nel muro, cominciò fin da subito a degradarsi. Gli esempi sono tantissimi, che si tratti di quadri, manoscritti o sempre di libri, affreschi, monumenti o arazzi, il degrado di un opera, per i vari motivi, può portare alla sua totale perdita. Per questo può essere disposto un arresto alla fruizione di tali opere, ma questo è un altro discorso.

Il falso come può quindi rivelarsi un’opportunità?

Dopo una grande perdita o una grave mutilazione di un’opera, se vi è la possibilità di ricostruire il più fedelmente possibile, seguendo le indicazioni dell’autore, leggendone le sue linee guida e studiando il suo pensiero, ebbene, questo può permetterci di emozionarci ancora davanti a ciò che altrimenti sarebbe stato perduto per sempre.

Certo le tecniche moderne e all’avanguardia permettono la ricostruzione estetica fedele dell’opera, ma a volte vengono utilizzati materiali differenti per permettere una migliore resistenza ad altri eventi sismici, per evitarne crepe e cedimenti. Mi chiedo tuttavia chi sarebbe disposto a rinunciare alle opere più belle del mondo solo perché non più totalmente originali?

Il tempo è un nemico inesorabile per la conservazione, ma dobbiamo imparare a conviverci e a valorizzare ciò che abbiamo. Alcune opere mantengono un senso simbolico importante anche se danneggiate dal tempo, ma se sono state danneggiate recentemente e abbiamo la certezza di come fossero nella loro completezza, allora trovo che possano essere almeno parzialmente ricostruite, senza ingannare il fruitore, ovviamente.

L’importante in fondo è emozionarsi davanti a queste opere così importanti, appassionarsi e poterle vivere, che esse siano sopravvissute integre al tempo o no.

 

La vigilanza in araldica viene rappresentata da una gru che rimane sollevata con la sola zampa sinistra, mentre con quella destra stringe un sasso. Tra le figure araldiche quella della gru è forse tra le meno popolari, ma la sua storia mi è sembrata da sempre così emblematica della realtà. Nel caso la gru dovesse addormentarsi e lasciarsi sfuggire il sasso, il rumore che questo produrrebbe cadendo la sveglierebbe, da qui la rappresentazione della vigilanza. Banalmente semplice no? Eppure come non notare la realtà di questa rappresentazione.

Spesso siamo così legati a quello che abbiamo, lottiamo molto per ottenere quello che desideriamo, sia che si tratti dell’ambito della conoscenza, della carriera o della famiglia. Quante volte però terminata la fatica della lotta e il compiacimento successivo ci dimentichiamo di quello che abbiamo conquistato? Quante volte come la gru ci addormentiamo lasciandoci sfuggire quello che così duramente avevamo raccolto? Troppe volte diamo per scontato quello che ci circonda, ma è umano.

Tra le tante cose che non dobbiamo dare per scontato tuttavia c’è la nostra conoscenza e quella dei nostri figli. Mi sono imbattuto nel fatto che ormai più di del 60% degli italiani non leggono nemmeno un libro durante l’anno e che, come immaginabile, i figli che non vedono i genitori leggere sono più propensi a non prendere in considerazione questa attività.

Certo è comprensibile che con i ritmi della vita di oggi si faccia davvero fatica  a ritagliarsi un attimo di tempo, di spazio, per sedersi comodi e leggere un buon libro. Spesso si rincasa tardi, stanchi e con ancora mille cosa da fare. Chi è genitore poi lo sa, non si vede l’ora di tornare ad abbracciare i propri figli, raccontarsi a vicenda le proprie giornate. Isolarsi dietro a delle pagine è un vero peccato.

Vigilanza nell’educazione o passatempi insieme?

Non credo che una cosa debba per forza escludere l’altra. Sarebbe bello però riuscire a dedicare una serata in cui invece di guardarsi un film, si legge un libro, anche tutti insieme. Educare le nostre generazioni a quel patrimonio infinito che è la cultura, servirà anche a farle crescere come persone e innalzare il loro valore a livello di capitale umano per il lavoro futuro. Abituarli al tatto del libro, a sfogliarlo, respiralo, a viverlo non soltanto come imposizione scolastica ma facendogli capire che può essere un vero piacere. I libri non sono solo contenitori noiosi, ma opportunità per condividere un’avventura o un viaggio insieme.

Non dimentichiamoci di leggere, non dimentichiamoci di insegnare a leggere, non lasciamoci svegliare come la gru dal sasso ormai caduto.

Mi riferisco a un appello a tradizioni e valori classici che spesso nasce spontaneamente nelle comunità. Un esigenza che germoglia comprensibilmente in un Paese ricco di storia come il nostro. Dai riti introdotti dagli antichi romani, passando per il Medioevo fino ad arrivare all’epoca comunale, le tradizioni hanno fortemente caratterizzato non solo la nostra geografia politica, ma anche il nostro linguaggio e le nostre differenze.

Ho sempre ritenuto fondamentale conoscere da dove veniamo per sapere chi siamo e cosa faremo nel futuro, la conoscenza che abbiamo di noi stessi quindi non può non passare per la nostra storia e le nostre usanze. Ogni città, ogni paese ha il suo carattere folkloristico, dalla lingua al cibo, dai riti quotidiani a quelli per gli eventi speciali.

Un appello alle tradizioni che coinvolge e trasmette cultura

La partecipazione cittadina nei piccoli centri italiani è grande. Ho ammirato questa attitudine in innumerevoli rievocazioni, anche all’estero, tuttavia quelle che mi rapiscono di più sono quelle dei nostri borghi medievali e rinascimentali. A tal proposito ho letto che a breve si svolgerà a Ferrara proprio uno di questi procedimenti di rievocazione storica, che permetterà di rivivere le tradizioni rinascimentali più importanti per la città. Trovo molto affascinante, sociologicamente parlando, il meccanismo di inclusione sociale e la creazione di gruppi organizzati secondo gerarchie storiche. Allo stesso tempo, poter vedere dame e cavalieri partecipare a banchetti in luoghi di pregio per gustare gli antichi sapori è altrettanto stimolante. Ferrara in particolare è all’avanguardia quando si tratta di rievocazioni storiche poiché in questa città, tipicamente medievale, si svolge la manifestazione del Palio, con sfilate, gare e cerimonie veramente caratteristiche fra le vie principali e di fronte al magnifico prospetto del Castello Estense.

Trovo che questi eventi siano particolarmente favorevoli non solo per la trasmissione delle tradizioni, ma anche per mantenere viva l’affascinante storia delle nostre città. Sarebbe quasi un crimine non leggere di antiche casate e celebri battaglie dopo aver partecipato ad eventi come questi.

Dopo una battuta di arresto durata anni, c’è ancora futuro per il vinile?
Devo doverosamente fare una premessa: parlo esclusivamente di ascolto musicale per appassionati, nulla a che fare con investimenti e sviluppo economico del vinile. Nel corso della mia vita ho ascoltato musica in tutti i modi disponibili, dalle gracchianti radio di metà 900, fino agli smartphone con app dedicate e YouTube. Anche per questo negli ultimi anni il mercato del vinile ha subito una battuta di arresto, causa principale è la creazione di nuovi supporti per ascoltare musica, sempre più pratici e alla ricerca del suono perfetto. Dalla musicassetta al CD, per arrivare ai file mp3, il modo di fruire la musica ha subito una vera rivoluzione, non solo sonora ma anche fisica. Con i nuovi supporti digitali non si possiede più fisicamente qualcosa, non si ha la bramosia di sfogliare i testi e le foto presenti all’interno della copertina. Si guadagna in praticità, certamente, ma anche interagire con il supporto credo sia un modo importante per approcciarsi alla musica.
Sicuramente il suono è andato migliorando e ricercando una perfezione che forse nel passato non era possibile, ma non è sempre un lato positivo. Il vinile con il suo suono morbido risulta unico e sempre diverso ad ogni ascolto, ogni granello di polvere presente sul disco rende diverso ogni ascolto.

Battuta di arresto superata dall’unicità della “user experience”?

Sicuramente dopo un periodo in cui l’ascolto di dischi in vinile era riservato ai collezionisti, ora il mercato sembra avere nuove richieste e proposte. L’estesa disponibilità economica dei possibili consumatori e l’estesa disponibilità logistica dei venditori, hanno ampliato le possibilità di fruizione. L’esperienza unica d’ascolto ha fatto il resto.

In questo rinnovato fervore collocherei il Vinile Expo di Novegro, poco fuori dalla Milano dell’arte e dell’economia, che accoglie numerosi stand sia italiani che stranieri per la vendita e l’esposizione di dischi da collezione. Ben vengano inoltre le nuove proposte tecnologiche per un ascolto anche senza giradischi, per chi vuole più comodità ma senza rinunciare al gusto retrò.
Da semplice fruitore della musica, sono comunque felice di questa riscoperta del suono d’altri tempi, che non è come quello odierno, definibile quasi usa e getta, ma nasce dal rispetto di ogni sua singola parte.
Certo, questa riscoperta potrebbe anche essere una moda passeggera, ma credo che il gesto di posizionare la puntina sul solco giusto e far partire un disco di vinile, generi comunque un valore esperienziale eccezionale. Magari nostalgico nei più anziani ed esplorativo nei più giovani, in ogni caso da provare, in silenzio.