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Annunciata dall’Ansa, la notizia scuote i salotti, che per tradizione non associano alla nostra città meneghina una storia ebraica particolarmente rilevante. Non a Venezia, non a Roma, non a Ferrara, ma a Milano nascerà a Milano il Museo nazionale della Resistenza. Parola dell’attuale ministro dei Beni culturali e del sindaco di Milano. E’ stata eletta come sede la seconda piramide di Herzog in piazzale Baiamonti.

La piramide verrà realizzata di fronte a quella già esistente della Fondazione Feltrinelli.
    In aggiunta ai 2,5 milioni di euro stanziati in passato, dice Ansa, se ne stanzieranno altri 15.

La comunità ebraica di Milano

Al di là della valenza simbolica di Milano come polo aggregativo, va detto che la comunità ebraica di Milano conta oltre 7mila iscritti, ed è seconda solo a Roma per importanza. La storia di questa comunità si può trovare nel libro di Rony Hamaui, “Ebrei a Milano”, edizioni Il Mulino. Nè ghetti, nè cimiteri abbandonati, nè storie rilevanti di ghettizzazione pubblica o privata. Forse il motivo della scelta di Milano risiede anche in questo, nella attuale constatazione di zona neutrale e pacifica, e quindi in un omaggio indiretto alla città.

Capitale culturale

Ma non possiamo escludere, come già detto, Milano come polo culturale ormai imprescindibile per qualsiasi nuova struttura. Capitale degli eventi e finestra sull’Europa. Raggiungerla, per i cittadini internazionali, è diventato sempre più facile, complici anche le compagnie aeree low cost che la collegano al resto dell’Europa. Ma basta camminare per le strade di Milano per percepire la vocazione internazionale dei suoi abitanti.

Il museo nazionale della Resistenza potrà suscitare invidie dalle altre nostre Capitali, alcune delle quali giustificate. Però è un riconoscimento che, in fondo, abbiamo meritato.

Paradossale? Non proprio. E’ quello che accadrà alla Galleria d’arte Moderna, GAM di Milano.

La mostra in questione si chiama “Images of Italy, contemporary photography from the Deutsche BAnk collection”. Curioso che la location di un titolo del genere sia, per l’appunto, l’Italia stessa, ma si sa che la nostra esterofilia non conosce limiti… Scherzi a parte, non ho visto la mostra, inaugurata il 25 settembre e che chiuderà i battenti il 27 ottobre.


La prima mostra in Italia che presenta una selezione di opere fotografiche della Deutsche Bank Collection, una delle principali collezioni corporate d’arte contemporanea a livello mondiale.
È un percorso tra le immagini dell’Italia fermate dall’obiettivo dei più noti artisti italiani e tedeschi, quello che si snoda tra la Sala da Ballo, la Sala 29 e la Sala del Parnaso della GAM. La mostra comprende fotografie scattate a partire dagli anni Cinquanta e fino ai giorni nostri da Luigi Ghirri, Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Armin Linke, Candida Höfer e Heidi Specker, solo per citarne alcuni (Fonte: il comunicato stampa dell’evento).

Le opere di Images of Italy sono esposte nelle tre sedi italiane del Gruppo: il quartier generale di Milano Bicocca, l’edificio milanese di via Turati e la sede di Piazza SS. Apostoli a Roma.

Siamo a Milano in via delle Orsole, l’edificio è quello della Camera di Commercio Metropolitana di Milano-Monza-Brianza-Lodi.

Il bando lanciato per la sua ristrutturazione è stato vinto attraverso la piattaforma Concorrimi dell’Ordine degli Architetti di Milano, dallo studio romano Transit. Insieme a loro, le società di Milano WiP Architecture Technical Engineering, United Consulting e Msc Associati.

Il progetto

Si era parlato, nel bando originario, di ristrutturazione, mentre lo studio ha fatto una proposta di demolizione e ricostruzione.

Camera di commercio in via delle Orsole, com’è ora

E’ quest’ultimo aspetto che mi ha colpito, principalmente perché i suddetti architetti dicono in un’intervista al Sole 24Ore di volersi rifare ai grandi maestri del Novecento.

Un’epoca non lontana nel tempo quindi, ma che cambierebbe notevolmente il paesaggio nel quale la struttura si inserisce, oltre che la struttura stessa. “Abbiamo fortemente voluto e ricercato un progetto che fosse profondamente milanese, utilizzando un linguaggio architettonico che affondasse le sue radici nella tradizione moderna lombarda e in Milano in particolare; un filo che ci legasse alle poetiche di Terragni, di Giò Ponti, di Magiarotti e dei Bbpr” dice la relazione del progetto. Di Giò Ponti ci vedo molto Palazzo Montedoria, ma evito di fare gaffe cercando riferimenti i una materia che non mi compete.

Demolizione parziale

Sede di una banca fino al 1997, il palazzone verrà quindi demolito, eccezion fatta per la piccola parte di edificio confinante con la chiesa di Santa Maria della Porta. Si parla infatti di due fabbricati comunicanti.

Un anno dopo il decreto ministeriale che prevedeva la fusione delle tre camere di commercio (parliamo del dicembre 2016, mentre il bando è del dicembre 2017), il nuovo ente si dota di una facciata nuova.

Ho visto il render del progetto sull’articolo del Sole, e lo trovo un buon connubio. Un connubio innanzi tutto tra una vocazione più moderna e un richiamo alla vecchia struttura (i pieni e vuoti dell’ultimo piano, soprattutto). Ma anche, se vogliamo, un po’ di desiderio di magniloquenza, che non guasta mai.

Mi piacerebbe sapere chi degli ispiratori e partecipatori del primo Fuorisalone, che fioriva spontaneamente negli anni ’80, abbia pensato al Salon des Refusés.

Un accostamento un po’ azzardato effettivamente, che compiace chi come me vuole avere a ogni costo la velleità letteraria/artistica, a chiave interpretativa dei fenomeni del contemporaneo.

Ma ecco, il Salon nasce su volontà reale, innanzi tutto. Lo istituì Napoleone III nel 1863, e la scelta polemica del sovrano non sfuggì certo agli artisti che lì si trovarono ad esporre. Se l’Accademia aveva canoni troppo rigidi, qualche ingegno lungimirante e non allineato avrebe potuto creare, dal rifiuto dell’Accademia, una nuova tendenza artistica.

Si può dire che così nacquero gli Impressionisti, e così nacque l’odierno mercato d’arte.

Una spinta anti-istituzionale e liberatrice da circuiti atavici che si impossessavano elitariamente del diritto di proclamare un oggetto “arte”.

Il Fuorisalone conclusosi a Milano il 22 aprile è un’operazione commerciale e d’intrattenimento, e su questo non ci piove. Inutile fantasticare su possibili seconde o terze interpretazioni.

Il canone del Fuorisalone

Qual è il canone del Fuorisalone? La garanzia di assegnamento dello spazio pubblico è dichiarata “spontanea”, sul sito dell’iniziativa. Non sarò certo io a mettere in dubbio la spontaneità di assegnazione, sono convinto che la democraticità d’assegnazione sia però molto diversa dal criterio universalistico del “tutti i rifiutati da”.

Innanzi tutto, qui nessuno è rifiutato. Anzi, si sono creati oggetti di design (molto curiose le smart houses)  tarati sul gusto del grande pubblico, adatti alla comunicazione in ambienti meno formali della Design Week a porte chiuse.

C’è chi potrebbe obiettare che da un certo punto in poi, conoscendo i canoni d’accettazione del Salon, qualcuno potrebbe averli raggirati appositamente per finire nei Refusés. E in effetti così fu, e l’iniziale universalismo lasciò giustamente il posto a una maggiore “tendenza”, e al raduno di artisti sottoforma di correnti, nate dalla solidarietà e dalla consapevolezza date dal comune rifiuto ricevuto.

Tutta un’altra cosa, ma i tempi cambiano.

Fu prima di diventare uno dei tenori wagneriani più famosi di tutti i tempi, tanto da essere invitato a Bayreuth, che il giovane tenore Giuseppe Borgatti si ritrovò a cantare alla prima a LaScala dell’Andrea Chénier. Era il marzo 1896 e il verismo era tendenza che bel si accoppiava con le istanze sociali della giovane monarchia italica.

Umberto Giordano infatti ha impostato buona parte della sua carriera su questo filone, con Fedora, cantato alla prima nientemeno che da Enrico Caruso. Il Voto anche, e Marina, opera prima con la quale partecipò a un concorso operistico poi vinto da Cavalleria Rusticana.

L’Andrea Chénier

L’Andrea Chénier non è opera per chi ha gusti tradizionali. I vocalizzi sono molti, e soddisfacenti solo se avete la fortuna di trovare un inteprete che sa colorare senza risultare forzato. A mio personale parere, anche un inteprete che non vibra troppo nei momenti di virtuosismo.

Storicamente le rappresentazioni di questo spettacolo sono diminuite dopo i primi trent’anni di continue riproposizioni, ma la popolarità dell’opera mi sembra che sia rimasta notevole. LaScala ha scelto di aprirvi la nuova stagione operistica, con un tenore azero che non conosco, Yusif Eyvazov. La controparte femminile è l’istrionica Anna Netrebko, che si sta facendo un discreto nome nella scena italiana e internazionale.

Il libretto è di Luigi Illica e si ispira a André Chénier, poeta francese vissuto in età rivoluzionaria. I buoni sentimenti rivoluzionari sono indorati dall’aura di positività semplice che accomuna la gran parte delle coppie tenore/soprano protagoniste nelle opere tardo-ottocentesche.  Il baritono, che nel triangolo assume solitamente il ruolo di oppositore, qui è entrambi. Anch’egli è innamorato di Maddalena, la giovane nobile che viene però conquistata dall’idealismo rivoluzionario di Chénier. Sarà la sua nefasta intercessione a far condannare a morte il poeta dal tribunale di Robespierre (salvo poi pensirsene entro il terzo quadro).

Infine il verismo, come prevedibile, si annacqua, e i due amanti muoiono, mentre il baritono si dispera.

Una bella opera, che consiglio a chi ama il virtuosismo, e a chi digerisce questo genere di trama.

Il palazzo dell’Anteo a Milano inaugura finalmente la sua veste di tempio del cinema. Con ben 11 sale cinematografiche, tra cui una con film on-demand, una per i film in lingua originale e una con annesso ristorante. Per aggregazione si aggiungono una nursery e un Caffé letterario.

Molt suggestiva la scelta di intitolare le sale a cinema storici della città come Excelsior, Astra, President, Rubino, Astoria, Obraz. Si parla di sale ora chiuse.

All’inaugurazione Cristiana Capotondi e Claudio Bisio, che ha definito coraggiosi i soci dell’Anteo. L’orario d’apertura è sicuramente coraggioso e competitivo, dalle 10 del mattino fino all’una di notte. All’interno sarà presente anche la Biblioteca dello Spettacolo, con libri, documenti, saggi e cataloghi.

Quello spirito imprenditoriale di cui ho già parlato investe anche uno dei rami dell’industria dello spettacolo rimasti più vivi. La settima arte si può dire sia rimasta infatti una forma d’intrattenimento piuttosto popolare, anche purtroppo nel senso deteriore. Ma stavolta sono speranzoso: la programmazione della  sala Obraz prevede ad esempio “Il diritto del più forte” di Fassbinder e “L’infernale Quinlan” di Orson Welles, con una superba Marlene Dietrich.

Trovo innovativa l’uscita dal formato proiezione-sala buia-attenzione sul film. Come nei teatri d’opera di un tempo, nella sala ristorante (gestita da Eataly) si può mangiare guardando il film. Wagner introdusse il buio in sala, e mi Hitchcock la chiusura delle porte a film iniziato.

Ma staticità non è sinonimo di tradizione.

La tradizione è ciò che viene “tràdito”, raccontato, e non vorrei sfociare nella banalità, ma trovo una boccata d’aria fresca questa sala ristorante. Altra suggestione che mi evoca, le gigantesche chiese protestanti anglicane con ristorante all’interno. Più che di tradizione gastronomica parlerei proprio di traslazione di un bisogno culturale: da oggetto di attenzione assoluta, a primaria gioia della fruizione, accompagnabile liberamente con un atto come il pasto?

Sono speculazioni, ovviamente. Complimenti al coraggio dei soci dell’Anteo, comunque.

Il numero chiuso è stato deciso a maggio dal Senato Accademico della Statale di Milano (come racconta il Corriere di Milano qui). Vale per i corsi di Lettere, Filosofia, Storia, Beni culturali e Geografia. La scelta era motivata da insufficienza di personale docente, inadeguatezza delle strutture, necessità di messa in sicurezza…

Erano tutte ragioni comprensibili, ma non sufficienti per i collettivi universitari, che hanno fatto ricorso al Tar.

Queste facoltà verrebbero infatti stravolte dal numero chiuso, non solo a livello logistico.

Il numero chiuso in ambito scientifico esiste oramai nella maggior parte delle università italiane. Se ne può ascrivere la nascita alla legge Zecchino 264/99. Erano momenti di assestamento sulla normativa europea in merito alle figure professionali di medici, dentisti e odontoiatri e si cercava con piccoli adeguamenti di mostrarsi rispettosi delle scadenze.

Quella che pareva una garanzia di qualità è in realtà un principio non condiviso da tutti: non posso non pensare ai Mooc (Massive Open Online Courses). I Mooc offrono scorci su argomenti disparati, da ingegneria, a neuroscienze, a letteratura e arti visive. Anche il MoMa di New York propone un bellissimo corso di fotografia. Si stanno diffondendo negli ultimi anni, e sono tenuti anche da università prestigiose, Yale, Stanford, il MIT…

Capisco anche le limitazioni fisiche. Il digitale supera brillantemente le difficoltà legate all’atto di uscire di casa, o al cambiare città o Paese. C’è poi il “free”, in contrasto col prezzo della retta universitaria o del singolo corso.

Ma a livello di reputazione, siamo realmente sicuri che la limitazione dei posti sia un guadagno? O meglio, lo è per le facoltà non-scientifiche? Trovo sterile la constatazione che il mercato del lavoro è tutto fuorché filo-umanista, e di conseguenza senza numero chiuso si potrebbe fomentare un’illusione occupazionale.

Non accampo ragioni biografiche, visto che appartengo a un altro periodo storico. Penso però che limitare l’accesso ai corsi “culturali” significhi limitare un accrescimento culturale potenzialmente massificato.

Non ci resta che aspettare e vedere come si esprimerà il Tar.

Un procedimento coerente e fondato su un vero lavoro scientifico, quello che sta portando a Milano la possibilità iniziative notevoli e stimolanti nel campo dell’arte.

La reputazione di Milano e della sua attività espositiva è molto alta e questo ci permette di sviluppare delle collaborazioni prestigiose. Ci tengo a sottolineare che non si tratta di mostre pacchetto ma di collaborazioni che partono dal lavoro scientifico

ha dichiarato l’assessore alla Cultura della Città di Milano Filippo Del Corno.

Confermata quindi una strategia che rappresenta la realtà di Milano, una città di grande importanza, non solo economica e finanziaria, ma anche culturale. Sappiamo che il nostro capoluogo si distingue a livello internazionale per le attività proposte durante tutto l’arco dell’anno: dalle mostre ai musei, passando per i festival le fiere e anche semplici tour per la città. Adoro vedere Milano viva ed energica, mi rende fiero sapere che un numero sempre maggiore di turisti vengono da ogni parte del mondo per visitare, quella che in fondo è casa mia.

Di qualche giorno fa la notizia della collaborazione tra il museo del Louvre e il Castello Sforzesco per la mostra “Anima e corpo. Movimenti del corpo e emozioni dell’anima nella scultura italiana dal 1460 al 1520“.  Il percorso vede l’esposizione di centotrenta opere provenienti dal Met di New York, da Vienna, Berlino, da Londra e dalla stessa collezione di arte antica del Castello Sforzesco.

Numeri notevoli e partner notevoli, che si susseguiranno anche per il cinquecentesimo anniversario della morte di Leonardo Da Vinci, quando sarà riaperta al pubblico la Sala delle Asse dopo il restauro della decorazione di Leonardo, e per la mostra “Vesperbild. All’origine della Pietà vaticana di Michelangelo” in programma nell’Autunno del prossimo anno.

Procedimento accurato che porta risultati significativi

La vivacità stimolata dall’attività culturale cittadina è percepibile per chiunque frequenti Milano anche solo per un giorno. Non per nulla il numero dei turisti richiamati dalle tante iniziative della capitale economica continua ad aumentare. Questo dovrebbe far riflettere su quanto investire sulla cultura porti ad un ritorno in termini di sviluppo reale delle attività turistiche, soprattutto se l’investimento poggia su una città reattiva, che cammina già sulle sue gambe.

Dopo una battuta di arresto durata anni, c’è ancora futuro per il vinile?
Devo doverosamente fare una premessa: parlo esclusivamente di ascolto musicale per appassionati, nulla a che fare con investimenti e sviluppo economico del vinile. Nel corso della mia vita ho ascoltato musica in tutti i modi disponibili, dalle gracchianti radio di metà 900, fino agli smartphone con app dedicate e YouTube. Anche per questo negli ultimi anni il mercato del vinile ha subito una battuta di arresto, causa principale è la creazione di nuovi supporti per ascoltare musica, sempre più pratici e alla ricerca del suono perfetto. Dalla musicassetta al CD, per arrivare ai file mp3, il modo di fruire la musica ha subito una vera rivoluzione, non solo sonora ma anche fisica. Con i nuovi supporti digitali non si possiede più fisicamente qualcosa, non si ha la bramosia di sfogliare i testi e le foto presenti all’interno della copertina. Si guadagna in praticità, certamente, ma anche interagire con il supporto credo sia un modo importante per approcciarsi alla musica.
Sicuramente il suono è andato migliorando e ricercando una perfezione che forse nel passato non era possibile, ma non è sempre un lato positivo. Il vinile con il suo suono morbido risulta unico e sempre diverso ad ogni ascolto, ogni granello di polvere presente sul disco rende diverso ogni ascolto.

Battuta di arresto superata dall’unicità della “user experience”?

Sicuramente dopo un periodo in cui l’ascolto di dischi in vinile era riservato ai collezionisti, ora il mercato sembra avere nuove richieste e proposte. L’estesa disponibilità economica dei possibili consumatori e l’estesa disponibilità logistica dei venditori, hanno ampliato le possibilità di fruizione. L’esperienza unica d’ascolto ha fatto il resto.

In questo rinnovato fervore collocherei il Vinile Expo di Novegro, poco fuori dalla Milano dell’arte e dell’economia, che accoglie numerosi stand sia italiani che stranieri per la vendita e l’esposizione di dischi da collezione. Ben vengano inoltre le nuove proposte tecnologiche per un ascolto anche senza giradischi, per chi vuole più comodità ma senza rinunciare al gusto retrò.
Da semplice fruitore della musica, sono comunque felice di questa riscoperta del suono d’altri tempi, che non è come quello odierno, definibile quasi usa e getta, ma nasce dal rispetto di ogni sua singola parte.
Certo, questa riscoperta potrebbe anche essere una moda passeggera, ma credo che il gesto di posizionare la puntina sul solco giusto e far partire un disco di vinile, generi comunque un valore esperienziale eccezionale. Magari nostalgico nei più anziani ed esplorativo nei più giovani, in ogni caso da provare, in silenzio.

Nella mia vita ho avuto modo di viaggiare, conoscere molte persone, studiare e vedere il mondo da prospettive diverse. Tutto il percorso è ciò che mi ha portato da essere il giovane Paolo Giorgio Bassi, studente all’Università di Trento nel lontano 1968, alla persona che oggi conoscete. Attribuisco alla curiosità un grande merito e sono convinto che fare un investimento nella propria curiosità sia fondamentale per crescere come persone. Spesso però la nostra prospettiva non è completa ed emerge la necessità di ampliarla, per scoprire campi nuovi verso cui direzionarla.

Questo è ciò che fa l’arte.

L’arte ha un ruolo umano e sociale innegabile: può aiutare gli uomini e le donne a provare sensazioni e sentimenti per quello che non comprendono e non conoscono, allargando i loro orizzonti.

L’indagine sulle diverse percezioni è fondamentale nello sviluppo della sperimentazione artistica, sia attraverso i suoni, che tramite le immagini. Questo ruolo è importante soprattutto se ci accompagna all’indagine di percezioni lontane dalla nostra quotidianità.

Avete mai ascoltato musica completamente al buio? È solo una delle prospettive di cui parlo: quella di un cieco. L’arte vissuta dalla prospettiva di chi è diversamente abile ci mette nella condizione di concentrarci solo su alcuni sensi, una cosa che non sembra difficile, ma lo è enormemente. Questa forma di espressione stava cercando il suo spazio e l’ha trovato a Milano, proprio negli stessi giorni dei Giochi Paralimpici di Rio de Janeiro. Un tempismo perfetto per inaugurare #ètuttodiverso, il primo festival dedicato ad arte e disabilità.

È durato solo un giorno, ma ha già fatto molto. Dai concerti accompagnati da fragranze pensate appositamente per le esibizioni dal vivo, fino alla percezione dei quadri senza poterli vedere. Un evento del genere si dovrà ripetere, spero in molti altri luoghi della nostra meravigliosa Italia, non solo per l’utilità in termini di beneficenza, ma per dare la possibilità a più persone possibili di mettersi nei panni degli altri e allargare il proprio punto di vista.

Un’esperienza per cui vale la pena fare un investimento di tempo e di cuore.