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Si crede spesso che nel Medioevo le conoscenze anatomiche si fossero formate più sulla tradizione antica che su dissezioni. La pratica dello smembramento dei cadaveri a scopo di studio, così dice uno stereotipo piuttosto diffuso, nel Medioevo non era consentita a causa di restrizioni politico-religiose. Che poi, a voler ben dire, prima dell’età moderna non ha troppo senso operare la distinzione tra religione e politica…

In realtà già alla fine del XIII secolo i medici usciti dall’Università di Bologna erano ricercatissimi in tutta la penisola per la medicina legale: le loro conoscenze anatomiche umane potevano essere preziosissime qualora si fosse verificata una morte “sospetta” e fosse necessario aprire un cadavere.

Questo cappello introduttivo perché l’idea falsa che l’anatomia non si praticasse risponde secondo me alla nostra necessità di eroi moderni. Immaginiamo ad esempio un Leonardo Da Vinci che dissezionava cadaveri illegalmente per poter disegnare i particolari di tendini e muscoli così precisamente.

Abbiamo bisogno di eroi moderni.

E vorrei, da completo ignorante in materia, parlare di una figura di eroe scientifico, che ha combattuto con mezzi culturali, legali e scientifici per una battaglia che credeva di civiltà e di affermazione della dignità della ricerca scientifica in quanto tale. Sto parlando di Silvano Dalla Libera, che si è spento due giorni fa. Considerato un paladino dell’agricoltura ogm, Dalla Libera era formalmente un agricoltore, che come alcuni altri ha deciso di sfidare legalmente il sistema seminando mais ogm.

Una battaglia per la ricerca scientifica e per la libertà di applicazioni biotecnologiche all’agricoltura. Pur astenendomi dal giudizio scientifico, saluto Silvano Dalla Libera come un libertario.

 

Tutela e conservazione non sono sinonimi.

Pensiamo al Ministero per la COnservazione dei Beni Culturali e al modo in cui operi per promuovere al grande pubblico tutti i beni sotto la sua giurisdizione.

Non casualmente stavo per scrivere “tutti i beni sotto la sua tutela”.

La tutela è un concetto che forse potremmo assimilare a quello di responsabilità: se ci riferiamo a oggetti animati, la nostra responsabilità nei loro confronti si misura nel modo in cui essi interagiscono con gli altri. Se io porto la mia figlia piccola al supermercato sono responsabile non sono di non perderla, ma anche che non vada a importunare l’ordine pubblico (ad esempio) tirando giù la merce dagli scaffali e giocandoci a tiro al piattello.

Se vogliamo affrontare i risvolti della responsabilità legale, scoperchieremmo un vespaio.

Passando senza colpo ferire agli inanimati, responsabilità e possesso coincidono spesso. Però non ho necessariamente responsabilità di una mia proprietà, mobile o immobile, mentre, a meno che non sia per questioni professionali, se devo ritrovarmi a essere responsabile per un bene, significa che ne ho la proprietà.

Il concetto di tutela, se riferito all’esempio della figlia piccola, si rivolge più al non perderla che non all’eventuale disturbo della quiete pubblica. Devo far sì che sia nutrita, vestiti, felice e realizzata come bambina e come adulta, devo fare quanto è in mio potere per garantirle, nei limiti della legalità, una vita che secondo i miei parametri e secondo i parametri sociali è soddisfacente. Finché, almeno, non esce dalla mia tutela.

I beni culturali devono essere secondo me sì conservati. Sono oggetti che si deteriorano, che sono bersaglio delle intemperie.

Se parliamo di tutela però escludiamo tutto l’aspetto che nella conservazione è chiaro: oltre a conservare in senso gretto, devo anche promuoverli nel modo corretto, perché è attraverso l’interesse pubblico, come un faro salvifico, che le opere vengono restituite dall’oblio al quale altrimenti sarebbero destinate. Per un’opera il peggio dal quale la tutela protegge è proprio l’oblio.

Credo che se accettiamo questa visione, abbiamo già compiuto un notevole passo avanti nel nostro rapporto con i Beni Culturali.

83,5% è una percentuale alta. Una percentuale che, prestando orecchio agli organi di stampa, non si attribuirebbe certo a una ascia dell’occupazione giovanile così difficilmente visibile per le ultime politiche governative, direi anche fortemente penalizzata dalla crisi: la ricerca.

L’Università di Bologna, attraverso i suoi strumenti di orientamento, sondaggistica, ha svolto un sondaggio tra i dottori di ricerca usciti dal suo Ateneo:

Il dato supera il 73,9% dei laureati magistrali biennali del 2016 ed è in linea, invece, con la quota di occupati tra i laureati magistrali biennali del 2014 tre anni dopo il titolo, che hanno toccato quota 85,6%. Oltre la metà sono donne, ma a fronte del 59,5% delle laureate di secondo livello nel 2017, le donne che scelgono un dottorato di ricerca scendono a quota 52,1%. (Fonte)

Sono 20 gli Atenei aderenti al COnsorzio di raccolta dati (“Almalaurea”), e quindi direi che il dato può essere statisticamente indicativo solo fino a un certo punto.

Detto questo, anche la percentuale di genere, sebbene possa sembrare confortante, non rispecchia le percentuali di iscrizione alle Università, andando a colmare un divario di genere che continua, nonostante le politiche in favore e nonostante le modificazioni culturali avvenute rispetto a quando andavo io all’Università, a esistere.

Cade proprio oggi un evento che normalmente non avrebbe catturato la mia attenzione: il Construction Conference 2018  a Padova, che vede tra i protagonisti anche Diego Carron, presidente della Carron Costruzioni Generali, Giovanni Battista Furlan, presidente di Net Engineering International e Enrico Marchi, presidente Gruppo Save.

A parte che chi bazzica il mondo di edilizia e appalti conoscerà questi nomi come un letterato conosce Gozzano e Petrarca. Ma per i profani, c’ comunque un aspetto curioso e che ho trovato interessante da approfondire, che è la rivalutazione dei capannoni dismessi.

Urbanistica: dal nuovo al recupero

Un argomento all’ordine del giorno, che consentirà di sviscerare dal punto di vista urbanistico e appaltistico un argomento che a occhio potrebbe riguardare più le notti insonni degli amministratori dei territori.

E invece io credo che il capannone dismesso possa rivelarsi di indiscutibile fascino architettonico. E non solo, se vogliamo evitare la naiveté: il capannone dismesso, a detta di tutti gli esperti di settore, costa molto meno del capannone nuovo, e decisamente di meno rispetto alla struttura concepita ad hoc. Un commento che inizialmente avevo pensato è che le maestranze impiegate per il recupero di uno stabile sono principalmente tecniche. Senza nulla togliere alle maestranze tecniche, è chiaro che il fattore che mi incuriosisce di più è quello concettuale, e artistico.

Post industriale e manifatturiero

Ma ecco, partendo da questa semplice e esauribile curiosità, ho pensato a come spesso l’arte incarni una forma di nostalgia che coviamo rispetto a qualcosa di alieno, perché c’é ma altrove/c’era/non c’è più. Non sentiamo forse come sempre più lontana la realtà post-industriale e manifatturiera?

Un capannone, come i mattoni rossi delle case popolari dei minatori in Inghilterra, non sono forse in qualche modo semioticamente collegati a una realtà che sta scomparendo?

Va bene, sono consapevole di come il capannone sia ancora un oggetto presente nella vita simbolica dell’uomo contemporaneo. Basta prendere un autobus e uscire dal centro città.

Ma sono sempre meno le maestranze (e forse sempre più tecniche) che ci lavorano dentro. Fateci caso.

Parlavo con un amico che mi riferiva di come la transizione dell’economia cinese dal manifatturiero al tecnologico abbia influito sui prezzi e sul trasferimento della manodopera tessile o meccanica, prima cinese. Dove si sta attuando una specializzazione che porta dal tessile e meccanico manifatturiero è naturale che il costo della manodopera si modifichi, tendendo ad innalzarsi. Dove prima si trovava sulla maggior parte delle etichette dei banchi cinesi al mercato “made in China”, aspettiamoci di trovare sempre più “made in Bangladesh” e “made in India”, questa la tesi del mio conoscente, che si occupa di export managing per una nota multinazionale tessile.

Se il lavoro piccolo costa di più

Da quel che ricordo dagli studi di economica, una delle poche sicurezze che si hanno nell’imprenditoria a ogni latitudine è che la manodopera sarà sempre tagliabile.

Una voce che dipende da molti fattori, tra i quali campeggia la tutela di tipo politico che uno Stato può esercitare , a vari livelli, sulla manodopera stessa. Se stabilisco con norme o con leggi del lavoro che una retribuzione non può scendere oltre una certa soglia, oppure che il lavoro dipendente è tassato in una certa maniera, sarà difficile aggirare queste misure, qualora siano troppo restrittive, per una multinazionale che vuole agire in regola. Quindi, necessariamente le misure devono assecondare le esigenze di detta azienda, e adeguarsi al mercato.

Domanda, offerta, manodopera

E’ curioso notare come non sempre la legge della domanda e dell’offerta non si adatti alla gestione economica della manodopera. Certo, è chiaro che non è una legge scientifica, e non sempre si applica, ma consideriamo in un certo senso la manodopera come un bene calmierato. Su quello, non è possibile applicare la legge della domanda e dell’offerta. Se ho possibilità eccedenti di forza lavoro, non per questo è detto che io offra paghe da fame. Il fatto in realtà accade, ed è sotto gli occhi di tutti, con la frammentazione dei contratti, la minore specializzazione della forza lavoro, e molti altri fattori che non è mia competenza elencare. Ma ecco, quello che mi preme notare, è che la dislocazione della manodopera ha anche un’altra faccia: l’approvvigionamento da diversa fonte delle materie prime. Il cobalto in Congo non costa poco solo perché il Congo ha grande offerta, ma anche perché lo stipendio medio del lavoratore congolese sarà tendenzialmente conveniente.

La manodopera che finisce

Vedo quest’epoca in una fase piuttosto tarda della vita, e mi sento di applicare con una certa saggezza quanto ho appreso finora: probabilmente non camperò abbastanza da vedere un cambiamento sociologico consistente, ma penso che succederà qualcosa che rivoluzionerà profondamente il nostro sistema produttivo. La manodopera è sempre meno richiesta, e sempre meno Stati la possono offrire a prezzi concorrenziali, e che consentono il sistema com’è adesso.

Quando più nessuno vorrà dedicarsi alla manifattura, ne vedremo delle belle. Ne vedrete.

Si è salvata anche quest’anno una delle zone più preziose per la produzione vinicola italiana. Per quanto mi si possa obiettare che ormai per i mercati esteri tutto il vino italiano è considerato vino prezioso, e per quanto potrei dilungarmi nell’argomentare una sagacissima risposta, penso che lascerò perdere.

La Franciacorta

Dicevamo, in Franciacorta la vendemmia, in barba ai biodinamici, è cominciata quasi puntuale intorno al 10 agosto. La particolarità del microclima di quest regione consente di raccogliere le sue uve bianche già in questa stagione. E’ alla metà di agosto che ci si può spostare al lago di Garda e cominciare la raccolta per il buonissimo Lugana. Ma la Franciacorta, da sempre, in Italia comincia per prima.

La vendemmia

Risalgono a questi giorni le cronache di caporalato in contesti agricoli di diverse parti d’Italia.

In molte zone della vendemmia franciacortina vigono conduzioni famigliari o contoterzisti, oppure ancora dei lavoratori stagionali, o dei pensionati lavoratori stagionali.

Mi dice un mio conoscente che lavora nel settore che molte aziende ricorrono a canoni agevolati per lavoratori a chiamata che siano però unicamente studenti o pensionati. Il che, mi pare di capire, dovrebbe rendere la prestazione lavorativa accessoria, negando di fatto il caporalato.

Il metodo Franciacorta

La gelata dello scorso anno sembra non aver afflitto le vigne di Chardonnay, Pinot Nero e Pinot Bianco che hanno cominciato a essere raccolte a partire dal versante sud del Monte Orfano.

I germogli sono arrivati regolarmente, e la vendemmia è stata fatta quando doveva essere fatta. Ogni tanto, una buona notizia.

A chi mi dirà che non è propriamente quello che si intende per “digitalizzare la cultura”, rispondo: non facciamone una questione terminologica. Il suffisso “-izzare” non è incoativo né frequentativo, come insegna la grammatica scolastica.

Rendere digitale

Questa nel titolo sarebbe, per chi la grammatica ha cessato di masticarla, la traduzione della chiosa del primo paragrafo. Cosa significa “digitalizzare”? Non si parla certo di incoativo, e cioé di “iniziare” una digitalizzazione, anche se in molti casi così è percepito il verbo, e così avviene.

Ma succede che in molte realtà, specialmente periferiche o a investimento pubblico non proprio intenso, in Italia, il verbo venga concepito in questo modo. Attenzione, è una conseguenza, non un “sema”.

Continuare su una strada

L’idea di “continuare su una strada” e cioè del verbo nel suo senso frequentativo, è pure una costruzione posteriore. Per gli avveniristi e chi propone un continuum con amministrazioni precedenti (sto parlando ad esempio del caso dei musei e delle istituzioni culturali), continuare è fondamentale.

Ancora, una costruzione logica posteriore.

Il wifi e il terzo significato

Il wi-fi quindi non rientra piuttosto appieno nel fraintendimento quasi suggerito del verbo “digitalizzare” in questo senso? Da un lato, novità digitale. Dall’altro, percezione di un processo di tecnologizzazione, o meglio di connessione, degli spazi pubblici e d’interesse culturale-artistico in Italia. Ebbene, sì, forse parlare di digitalizzazione è un’appropriazione indebita.

Ma questo è quanto accade per la Reggia. Il digitale sta prendendo piede, grazie al loro obiettivo tematico 6, che prevede di migliorare la fruibilità dello spazio pubblico. Questo non impatta se non in seconda battuta sulla fruizione culturale. Secondo obiettivo, e qui subentra il frequentativo, è creare una rete hardware più efficiente e una piattaforma open data. E qui subentra il terzo significato del verbo, che secondo me parlando di cultura e fruizione più affrontabile per tutti: intensivo.

Digitalizzare la cultura ha un senso intensivo.

 

Il vino come manifestazione di eccellenza italica è un concetto non sempre univocamente associato a precise norme di parificazione, promozione, detenzione di competenza, eccetera.

Produttori di vino italiano approvano il Ceta

Per questo mi ha colpito oggi una notizia letta sulle agenzie stampa:

Il “settore vitivinicolo europeo sostiene il Ceta”, dichiara il segretario generale del Comitato europeo imprese del vino (Ceev, che conta Federvini tra i membri italiani) Ignacio Sànchez Recarte, alla vigilia della primo incontro del comitato Vini e alcolici Ue-Canada, istituito nell’ambito del Ceta, che avrà luogo domani. In agenda c’è la discussione su alcuni ostacoli nei canali di vendita di vini europei oltreoceano. Proprio “le disposizioni incluse nel Ceta – aggiunge Recarte – serviranno a rimediare al trattamento discriminatorio che i vini dell’Ue subiscono nel mercato canadese”. Per ottenere questo risultato, però, l’accordo va “attuato pienamente e il prima possibile”, conclude Recarte.

(fonte: Ansa)

Il Cetaceo

Per questo di fronte all’ostacolo di altre lobby, come quella del grano, del granturco, della soia (e si badi che uso “lobby” in senso neutro, senza ombra di sgradevolezza), il vino ha scelto il Ceta. Come è giusto in una dialettica che prevede una controparte avvantaggiata, i produttori di vino italiano si sentono più tutelati da questo accordo.

Non vedo una rete che potrebbe risultare proficua per entrambi, ma non essendo una materia della quale mi occupo non posso che constatare la discrepanza, prendere atto, e continuare a consumare di preferenza vino delle nostre lande.

Promozione locale

Ho parlato spesso di promozione locale e di necessità di networking, specialmente per le istituzioni artistiche. Nella questione del cibo (del “food”) come si dice in gergo, l’elemento culturale si deve necessariamente integrare con valutazioni sanitarie, ma anche agronomiche ed impreditoriali.

Se la cultura del vino è tutelata, non è detto che sia promossa, sponsorizzata. Alla fine, è un equilibrio delicato, e forse un trattato sovranazionale è soltanto percepito come un pareggio.

 

 

”La cultura del vino vale quanto il Colosseo, perché risale alle radici della nostra storia ed è oggi, come sarà nel futuro, una grande attrazione di conoscenze”. Così riportano i cronisti il discorso del Capo dello Stato alla Fis (Fondazione Italiana Sommelier).

Parliamo di vino

Devo dire che trovo apprezzabile la cultura dell’affinazione di palato che abbiamo in Italia e in Francia, in merito a vino e oli, principalmente. Il vino difeso dalla Fondazione Italiana Sommelier è certo un vino diverso da quello del produttore franciacortino, ma vorrei focalizzarmi più su queste due notizie lette su Ansa, che sulla caratura culturale endogena  del vino.

Il Valore del Tempo

Non farò però l’ingenuità di prescindere dalla retorica che aleggia intorno al vino stesso. “Il valore del tempo” è proprio il titolo di questo undicesimo Forum Internazionale della cultura del vino.

Non serve certo questo singolo episodio a certificazione di una tendenza alla valorizzazione, che è di brand piuttosto che di “cultura”, e giustamente. Queste le parole del presidente Fis:

”In oltre 30 anni di attività abbiamo lavorato perché l’Italia si emancipasse alla conoscenza di un prodotto che genera una esperienza culturale di conoscenza alla biodiversità italiana. L’insieme dei vitigni del mondo infatti rappresenta solo una piccola parte rispetto alle varietà di uve presenti dal Piemonte alla Sicilia. La conoscenza territoriale di questo prodotto, a volte demonizzato, ci deve rendere consapevoli, anche nelle aule scolastiche, di un patrimonio unico che da’ futuro all’Italia” (fonte: Ansa).

Esenti da etichetta nutrizionale

Ma la seconda notizia che mi preme riportare riguarda la normativa europea, uno dei massimi baluardi (normativi, più che intrinsecamente culturali) di DOP, DOC e pregio vinicolo: la Commissione europea ha rigettato l’idea di apporre un’etichetta nutrizionale alle bevande alcoliche.

Benché ci si esima così dalla corretta informazione del consumatore, il che aprirebbe a mio parere un dibattito su come una cultura nuova si sovrapponga alla necessaria valorizzazione di una pre-esistente.

Me lo sono già chiesto relativamente alla retribuzione, e ora è necessario allargare il discorso alla proprietà intellettuale: di chi è la riproduzione 3d di una città?

I Buddha Bamiyan

Mi ricordo la morsa di sconforto che colse l’opinione pubblica, quando nel 2001 circolò la notizia che i Taliban avevano distrutto i Buddha Bamiyan. Un paio d’anni dopo l’Unesco li ha inseriti nel proprio Patrimonio dell’Umanità, promettendo di risanarli dagli ingenti danni subiti.

Uno dei risanamenti più consistenti, emblematici, se vogliamo, è la digitalizzazione. Laddove l’ambiente dei Buddha è stato digitalizzato per consentirne la visione, si possono vedere le statue nella loro bellezza originaria: prima che gli stucchi venissero lavati via dalle intemperie, gli angoli della viva roccia smorzati, il colore pian piano omologato a quello del resto della montagna per ossidazione.

Almeno, questo dovrebbe essere il proposito della digitalizzazione.

Ma quindi, di chi sono?

E arriviamo alla domanda: a chi appartengono i cultural data prodotti grazie a competenze specifiche, e anche con una certa dose di senso artistico, da questi archeologi digitali?

Più che di proprietà sulle tecniche di lavoro, quindi, ha senso pensare: l digitalizzazione, cambiando l’ambiente di fruizione dell’opera, diventa un prodotto privato? E’ una distinzione importante, perché il prodotto privato cambia totalmente nelle modalità di fruizione.

E chi ha la mia età non può non ricordarsi gli entusiastici pellegrinaggi dei buddisti occidentali a visitare i Buddha Bamiyan, massima esposizione del Buddismo del Centrasia del III  e V secolo.

La fruizione

Quindi, la fruizione delle singole opere digitalizzate metterà chiaramente in discussione la loro natura “pubblica”. Tralasciando per un momento il discorso sul diritto d’autore: l’unico parametro per valutare se un cultural data verrà considerato pubblico o privato, sarà vedere a chi è destinata la fruizione, e come avviene.

Solo in base a queste considerazioni squisitamente pratiche riusciremo a capire di chi è il patrimonio artistico digitale.