Archives for category: Riflessioni sul futuro

Vedo intorno a me le vetrine natalizie che cominciano a stipare sempre di più il campo visivo. Mi chiedo a volte, non senza una vena di nostalgismo, quando abbiamo iniziato a anticipare di anno in anno sempre di più l’inizio dei saldi di Natale.

Avrei ovviamente notevoli rimostranze da fare ai negozianti che mi inquinano i centri storici con gadget sempre uguali, riciclati dalla decina d’anni precedenti. Calzini con le renne, maglioni a fiocco di neve, copri-orecchie di pelo bianco e rosso: l’escalation del kitsch può paragonarsi alla Guerra Fredda. Solo che qui è una vera e propria guerra del freddo! Chi riuscirà a accaparrarsi il tessuto più isolante e riscaldante, contro le rigide notti che il cambiamento climatico ha finalmente reso tollerabili?

Come ci difenderemo dalle piantagioni di papaye, comprando meno plastica o prendendo uno stupendo gadget natalizio modello eterno, come ne facevano sin 40 anni fa?

Ovviamente, sono convinto che il fascino discreto delle stupende città italiane possa competere con gli sbarluccichii rossi e bianchi. Però bisogna aiutarlo, e cercarlo, e saperlo trovare.

Buona ricerca della bellezza pre-natalizia!

Sono in fibrillazione i salotti benparlanti del Web, soprattutto quelli più libertari: è di nuovo in discussione al Parlamento europeo la legge sul copyright.

In breve

Sembra che con l’approvazione di questa mattina i grandi colossi dell’informazione online dovranno attenersi al citazionismo bibliografico proprio come già fanno i giganti dell’editoria. Per chi concepisce i libri e i giornali come antiquata costrizione, questa può sembrare una novità priva di qualsivoglia utilità: perché fermare- si chiedono questi paladini del libero pensiero, questi illuministi digitali – perché ostacolare la diffusione della libera informazione?
Ma non ci si ferma qui, e si arriva a chiedersi la liceità politica di un simile provvedimento: non stiamo mettendo un bavaglio (leggere: monetizzando) la libera informazione?

Monetizzare la libera informazione

Vivere in un Panopticon foucaultiano, quale è il mondo digitalizzato nel quale ci troviamo a esprimere le nostre opinioni, fa sì che probabilmente il concetto di spazio grigio sia assai male interpretato. Non possiamo uscire dalla nostra percezione, o da come concepiamo la nostra percezione. Questo che sto facendo è un tentativo di tradurre il termine “cultura” in senso sociologico, e altri meglio di me l’hanno già fatto,

ma proviamoci applicando la definizione che ne ho dato: la percezione dell’uomo delle caverne è che l’animale selvatico sia rosso, bruno e nero. La sua percezione è intrisa della cultura che lo anima. Il nonno nei suoi racconti così lo descriveva, rosso è il sangue e quindi il terrore, l’invincibile e il vincibile, perché il sangue può essere anche ordinario. Come la dimensione ctonia, anche quella bestiale sono scortate da vicino dalla percezione che se ne ha. La libertà, quale aleatorio concetto. Ma voglio fare il gioco degli antropologi, e pensarla come la bestia, come il sangue, come la terra. La libertà è percepita come la libertà di ricercare un contenuto che si crede plurivoco ma universale. Il welfare della libertà ha abituato al servizio dell’informazione a costo zero, e quindi per alcuni Millennial probabilmente pagare un libro è diventato definitivamente un gesto obsoleto. Pagare del contenuto, ancor di più.

Sono riuscito a non scomodare nemmeno un contenuto politico, e ne vado fiero.

In mezzo a tempi difficili per la pubblica scuola italiana, qualche riconoscimento internazionale arriva, e non indispone i già esacerbati critici del nostro sistema educativo.

I mondiali della robotica della Nasa sono stati vinti da tre scuole italiane, e questa è la notizia importante ma non la sola.

La Zero Robotics

La Zero Robotics è forse la principale competizione mondiale di robotica per studenti, voluta dalla Nasa e dall’università di Boston, che della sinergia tra queste due grandi realtà scientifiche ha fatto un obiettivo condivisibile anche da uno degli organismi con più potenziale scientifico, anche se spesso mal sfruttato: la scuola.

E quindi il viaggio di questi giovanissimi guidati di loro professori è iniziato tra i banchi, per finire negli States. Cinque mesi di sfide, 180 scuole partecipanti.

Un podio tutto italiano

Obiettivo della simulazione finale: manovrare delle micro sonde in ambiente di microgravità, a bordo della Stazione spaziale internazionale.

Sul podio il liceo Avogadro di Vercelli, seguito dal Cecioni di Livorno e dall’Istituto Tecnico Righi di Napoli. E’ proprio su quest’ultimo che spenderei qualche parola in più, innanzi tutto perché credo che gli istituti tecnici in Italia siano usciti un po’ dall’alone di discredito che vigeva forse più nella mia epoca storica. Un ottimo istituto tecnico, mi dicono rinomato in città e che garantisce un buon profilo di preparazione. Che ha anche portato a casa un riconoscimento internazionale non da poco, con questi mondiali di robotica.

Il caso che l’aveva coinvolto qualche tempo riguardava la carenza di fondi. Senza i fondi, lo sappiamo, non si viaggia fino agli States, che non sono proprio una rituale meta da gita scolastica.

Solidarietà scientifica e umana

Un vero e proprio appello, quello della scuola, a chiunque fosse disposto a donare per la causa degli studenti. Una causa scientifica, ma anche e soprattutto umana. E questo credo che sia l’aspetto più toccante, il sommovimento di energie di esterni, che per l’ambizioso progetto di un gruppo di giovani promesse mette a disposizione il proprio denaro e tempo.

Un ringraziamento ai professori, ai donatori, e un grande plauso alla bravura dei nostri ragazzi!

Si sa che le cronache e l’opinionismo di bassa lega sono sempre pronti a sveltire i processi culturalipiù di quanto non accada realmente. E così la conversione dell’umanità moderna allo smart phone sembrava essere diventata la nuova caratteristica topica della modernità. Quindi, l’homo post-modernus (si potrà dire?) è un uomo con un’appendice al cobalto e silicio tra leproprie dita, capace di consultarla appropriatamente, ricavandoci in un’ora le informazioni che fino al secolo precedente un uomo solo accumulava in tutta una vita. E parliamo di un uomo mediamente colto, figuratevi chi non leggeva e apprendeva unicamente dalla propria esperienza e dalla vulgata…

Homo post modernus e smart phone

Ma ecco, lo smart phone continuava a essere associato alla nostra evoluzione anche da opinionisti che volevano assurgere al rango di filosofi. Quindi, se la macchina a vapore e il binario erano la fine dell’Ottocento, se la stampa a caratteri mobili il Quattrocento, lo smart phone agli inizi degli anni Duemila.

Calo delle vendite 2018

Ma ecco che una prima avvisaglia dello sbandieramento eccessivo proprio dei cronachisti e degli opinionisti comincia a manifestarsi: si è registrato per quest’anno il primo calo delle vendite degli smart phone. ” Secondo le stime di Strategy Analytics, il 2018 si è chiuso con consegne in flessione del 5% rispetto all’anno precedente” riporta il sito dell’Ansa, e anche se ancora parliamo di stime, penso che non sia avventato pensare a un calo fisiologico nelle vendite, dovuto banalmente alla disponibilità del prodotto, che non sempre è un bene di consumo da obsolescenza programmata e dal ricambio facile. Molti articoli hanno un picco iniziale nelle vendite, che corrisponde alla moda dell’approvvigionamento, e poi quando diventano un lusso acquisito diventano anche meno venduti. La sfida del gioielliere, o del venditore di auto di lusso, sta appunto nel lusso.

Lusso o moda?

Nel lusso, oppure… Nel puntare al ribasso creando un prodotto sempre peggiore, dal costo sempre inferiore, con nuovi accessori, e con obsolescenza programmata con tempi ancora più brevi. A noi la scelta.

Un altro anno si è concluso e di nuovo temo di non aver raggiunto quel che mi ero prefissato.

La pace nel mondo?

Forse, come proclamano le modelle nei contest di bellezza. Non so per quale motivo, forse è un’abitudine, forse è una mia costruzione che non tiene conto delle sfaccettature della realtà. Ma no, non è la pace nel mondo.

Divulgazione storica, letteraria, artistica accanita e frecciate meno pietose che altrove. Questa è l’idea che nella costruzione di questo blog che cresce mi è nata tra le righe, di solito distrattamente alla fine di ogni pubblicazione nuova.

Nei buoni propositi dell’anno nuovo inserisco una cura più regolare. Parcere subiectis non è mai stato il mio detto latino preferito.

Di nuovo, le feste mi lasciano del tempo per riflettere su un nuovo piano d’attacco. Buon anno nuovo e critico a tutti!

PGB

Ricordo di aver visto non ricordo in che occasione un documentario che inquadrava l’interno dell’appartamento della poetessa polacca Wisława Szymborska. Il documentario partiva dal racconto biografico della poetessa e proseguiva narrando del ritiro del Nobel nel ’96, da lei personalmente descritto come “la catastrofe di Stoccolma”.

Nel suo appartamento ricordo esserci stati innumerevoli gingilli, bomboniere, souvenir, calamite, oggetti piccoli senza una funzione, spesso variopinti e luccicanti. Mi è sembrato, ricordo di aver pensato, la tana di una gazza ladra, piuttosto che il rifugio dalla Modernità di una grandissima e toccante poetessa.

Il kitsch

Kitsch, così l’ha chiamato lei stessa, una volta interrogata dall’intervistatore (abbiate pazienza, non ricordo proprio chi fosse). Aveva dato fiato ad un’apologia del kitsch che ho trovato spassosa e insieme coraggiosa, perché era sincera.

Ecco, in clima di tripudio natalizio, con lucine epilettiche e babbi natale abbarbicati su ogni balcone, mi sono ricordato che Andy Warhol amava il Natale. Famosa è la sua foto vicino a un albero di Natale non addobbato, lo sono meno invece le sue riproduzioni di ghirlande natalizie di età giovanile. Se non vale la pena soffermarvicisi, perché come tutte l opere di Pop Art ha senso solo se è pop, ovvero se tanti la conoscono e la riproducono spasmodicamente, Warhol e il Natale hanno probabilmente più in comune di quelloche non pensiamo. Nella sue biografie si parla spesso dell’infanzia religiosa trascorsa con la famiglia. Gli amici ricordano la sua munificenza nel fare i regali.

Insomma, pensando a mille accessori kitsch e a gadget inutili e a vetrine sfarzose, ho pensato che lo spirito di Andy Warhol, ma anche dell’apartamento di una nota poetessa polacca, è una delle facce di questa festa, e che così ce la dobbiamo probabilmente tenere.

Buon Natale a tutti!

PGB

 

 

Trovo affascinante come le branche del sapere più volatili tendano ad adottare nomi fantasiosi per definire le proprie nuove conquiste epistemologiche.

Il conversation marketing

Detto anche conversation marketing, è un tipo di promozione commerciale che si basa sul discorso diretto e informale con il destinatario delle informazioni pubblicitarie. Agli addetti ai lavori che scomodassero la loro scienza rabboccando le mie definizioni imprecise: pubblicità è nel senso comune il termine che meglio definisce tutte le strategie di comunicazione con il destinatario futuro, presente e potenziale di una vendita.

Pubblicità, devo ricordarlo, è però già di per sé un concetto che nel marketing è quasi obsoleto (come cambiano in fretta le glorie del mondo..).

Perché informale

L’informalità non è in realtà l’unica caratteristica del conversation marketing.

Il rapporto che nel marketing nasce come massificato tra ideatore, messaggio e destinatario, nel c.m. tende a trasformarsi in un tentativo di rendere il rapporto più privato. Da qui, più “conversazionale”. Ma il tentativo non è unicamente nel messaggio. A differenza di quanto dicono i semiologi, il medium in questo caso non è il messaggio, o meglio se lo è, non ci aiuta a capire la differenza tra il precedente marketing e questo. Questo marketing, semplicemente, ti chiede cosa vuoi. Dalle chat bot che indagano conversando con il cliente, all’utilizzo di big data lavorati che orientano le proposte fatte a un target, le personalizzano e le indirizzano nei momenti e modi giusti.

Il sogno del marketing che si avvera

Per ora siamo di fronte a uno dei sogni del marketing che si avvera: Il messaggio massificato che doveva sembrare rivolto “proprio a te che stai leggendo” ora diventa realmente rivolto ” a te che stai leggendo”.

Il che può sembrare inquietante, ma sicuramente è epocale.

 

Ma ecco che dopo aver constatato che le lingue franche potrebbero venire meno in seguito all’utilizzo del traduttore, vorrei per amore del ragionamento per assurdo sostenere esattamente l’opposto, nella migliore tradizione sofista.

Le lingue finte saranno le più tradotte

Prendiamo un contesto aziendale. Una multinazionale, diciamo, italiana commercia con l’estrema Asia. La domanda è molto semplice: con a portata di mano un ottimo traduttore, è più probabile che la lingua nella quale si decida di comunicare sia l’inglese/cinese o, diciamo, il coreano tradotto?

Posto che né si parlerà, in ogni caso, l’inglese britannico, né il cinese mandarino. Anche perché quest’ultima è una lingua estremamente complessa, e nella comunicazione di concetti logistici non è certo richiesta tutta, e in tute le sue sfumature. Queste due lingue “franche”, però, sono molto più semplici nella resa, mettendo in un traduttore un testo complesso dalla propria lingua madre. Pensiamo a cosa succederebbe, se inserissimo nel traduttore automatico una frase in italiano ineccepibile, e a scatola chiusa ci affidassimo a una macchina per consegnare al cliente coreano un’altrettanto complessa e articolata mail in coreano.

A me, hic et nunc, sembra quantomeno assurdo pensare a un grado di affidabilità simile, da parte di un traduttore. Ma poi, mi sembra anche assurdo che mai si svilupperà una simbiosi simile con questi mezzi, che consentono sì la comunicazione migliore, ma mi sentirei di dire che lo fanno più sulla traduzione in entrata.

La fiducia nel mezzo

Quello che pensavo di sostenere nella terza parte di questa piccola riflessione è che scrivere solo nella propria lingua, aspettandosi che un altro faccia il lavoro di traduzione, è in realtà una forma di preservazione della purezza della madrelingua. Che sarebbe credo cara a molti poeti dell’antichità, non c’è dubbio. Ma poi, quanta parte del manager aziendale si fiderebbe? Quanto siamo ancora dipendenti dal concetto di lingua franca? Come possiamo credere che un abito a noi così attillato come la lingua possa adattarsi a algoritmi, e consegnare lo stesso abito ad altri?

Io credo che le lingue franche siano quelle che sopravviveranno a qualsiasi evoluzione tecnologica. E con questo ho concluso.

Nulla di quanto ho detto in merito al traduttore automatico, anche nella seconda parte, deve far credere che il mio approccio nei confronti del traduttore automatico sia in qualche modo pregiudiziale. Vorrei anzi approfondire il punto del machine learning, ovvero di come si insegna a una macchina a imparare sentendo parlare un linguaggio naturale. Insomma, come si insegna a una macchina a diventare più “umana” e ad attuare miglioramenti che le consentano di rendere strumentali le conoscenze che acquisisce.

La linguistica computazionale

Tutto nasce alla fine degli anni ’50 con la linguistica computazionale.

I linguisti computazionali, semplicemente, come tutti i linguisti studiano grandi corpora di dati e da essi traggono delle conclusioni scientifiche sulla lingua che parliamo.

Studiare un corpus richiede un grande ammontare di tempo, richiede personale qualificato per “spulciare” il materiale che serve, per capire ad esempio quando un’occorrenza verbale sia rilevante oppure no. Ad esempio, quanti italiani dicono “a me mi” nel loro linguaggio scritto quotidiano? Il gruppo di persone che sfogliano il corpus è sostituito in quasi ogni tipo di  linguistica oggi da una macchina, che sulla base di semplici istruzioni sintattiche e morfologiche, trova i dati grezzi, che vengono poi interpretati dai linguisti.

La linguistica computazionale va oltre.

Riconoscere la lingua parlata

La linguistica computazionale, attraverso il “tagging”, ovvero l’etichettatura computerizzata delle parti del discorso e della fonematica di un linguaggio naturale, porta ad esempio alle App di riconoscimento della lingua parlata.

Ormai il mio telefono interagisce con me e ascolta le ricerche che gli chiedo di fare come non avrei mai immaginato che si potesse fare.

Dagli anni ’50

Quello che secondo me questa esperienza insegna in modo molto icastico è come la tecnologia e l’interesse del mercato portino un campo della ricerca a impennare vertiginosamente verso realizzazioni pratiche impressionanti. Tornando ai traduttori automatici, vorrei fare una seconda considerazione: l’annullamento della barriera linguistica dato dalla diffusione delle “lingue franche” per i mercati (inglese per l’Europa e le Americhe, cinese e arabo che si spartiscono l’Asia), porta da un altro lato a un rispetto della differenziazione che i traduttori automatici consentono: non ti parlo in esperanto se DeepL mi traduce dal polacco all’italiano in pochi secondi. Così i polacchi continueranno a parlare il polacco, gli italiani l’italiano.

L’utilizzo del traduttore automatico è una frontiera.

Una frontiera tra l’esattezza lessicale che viene richiesta dal buon traduttore nelle scuole di linguistica odierne, e dall’altro lato la necessaria contestualizzazione del materiale tradotto.

Traduttore automatico

E’ evidente che tra le due sia più difficile raggiungere la seconda, per un traduttore automatico. Per quanto riguarda la prima, le regole grammaticali impostate dai programmatori come ferree consentiranno un minore margine di errore. Va detto che la varietà che la mente di un traduttore consente, e tutte le sfumature di un termine, di un’immagine, forse non saranno immagazzinate in quella macchina specifica. Però vorrei dire che quando lessi alcune poesie di Baudelaire, masticando un po’ meglio il francese di quanto io faccia ora, mi trovai in disaccordo con alcune delle traduzioni proposte.

Traditore

Il traduttore traditore è una figura che di per sé ricompare in alcuni ambienti nella storia della letteratura. Tradire è già passare da una lingua a un’altra, perché il retaggio culturale e regionale che un autore imprime al proprio testo sono variabili. Variabile è anche e già la percezione che un lettore se ne fa, a seconda della propria percezione linguistica.

Certo, non vogliamo sfociare nel relativismo più scevro, ma per capirci, qualche problema con la traduzione c’è sempre stato, ed è sempre stato percepito. Ma come si insegna, dunqeu, questo contesto alle macchine?

Il contesto spiegato alle macchine

Il contesto in cui calare un sintagma è inserito grazie a processi di machine learning nella cui complessità non saprei addentrarmi. Quel poco che mi pare di aver capito è che alla macchina viene insegnato “come imparare”. ovvero, le viene sottoposta una quantità di dati sempre variabili, e quello che dovrà apprendere sarà come scremare le casistiche.

Quello che fanno “manualmente” i linguisti che studiano un corpus, la macchina lo eseguirà grazie alla propria abilità di calcolo.

Nella prossima puntata vedremo meglio quest’ultimo punto.