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Una conquista per il maestro fiorentino, del quale ho già parlato in qualche occasione.

“Pontormo: Miraculous Encounters” apre domani, 8 settembre, alla Morgan Library di New York.

Pontorno alla Morgan Library

La pala d’altare, probabilmente la sua opera più iconica anche per la colorazione pastello così manierista, ritrae l’incontro tra la madre di Cristo e la sua parente, Elisabetta. Un momento di agnizione nei Vangeli, nel quale la cugina più anziana sente il bambino che porta in grembo sussultare. Per chi mal ricordasse la novella evangelica: qui san Giovanni Battista, portatore dell’atto iniziatico del battesimo, incontra il proprio cugino, anch’egli in gestazione. Se quando si incontreranno da adulti i due avranno occasione per riconoscere il rispettivo ruolo, ora c’è solo un vago sentore magico, una premessa per la storia che va a svolgersi di lì a una trentina d’anni: il Battista battezza con acqua, ma annuncia che arriverà uno a battezzare con lo Spirito Santo, e l’annunciazione corrisponde a perfetta chiusura del cerchio, nei Vangeli. Dopo di lui infatti il cugino più giovane arriva, e a lui spetterà più avanti l’incarcerazione e la decapitazione.

La rappresentazione dei fatti

Ma senza entrare troppo nei dettagli apotropaici di questa decapitazione preventiva dei discepoli, nel dipinto del Pontormo non appare una chiara allusione al miracolo. A voler ben vedere, appare solo una rappresentazione di un episodio che potrebbe benissimo essere una fotografia quotidiana, tanto è assente in esso la narrazione.

Mi viene in mente una comparazione con lo sposalizio della Vergine, nella doppia versione del Bramante e di Raffaello. La comparazione tra i due dipinti consente di mettere in luce la relazione tra costruzione poetica e narrazione del fatto: nel caso del Bramante, la prospettiva regna sovrana, e per un moderno quale lo spettatore è, è quasi impossibile distinguere la narrazione sotto tutti gli strati sovrastrutturali del dipinto. Serve un codice, vorrei dire, che noi possiamo anche non possedere.

Nel caso di Raffaello, benché non sia comunque esente dalla sua maniera graziosa e leggiadra, la narrazione è ben più evidente. E’ evidente che sia in atto uno sposalizio, che la sposa sia una Vergine, e il paesaggio diventa con la sua vividezza diminuita, rispetto al Bramante, un piacevole corollario alla vicenda.

Tornando al Pontormo

Tornando al Pontormo, io trovo difficile non essere spiazzato dai colori pastello. Sono davvero molto evidenti, e mi richiamano tutto un Rinascimento post-michelangiolesco che fatico a mettere in secondo piano rispetto al fatto narrato.

Il miracoloso incontro alla Morgan Library sarà forse mediato dall’esposizione a un pubblico ben più ampio, che forse non ha questa “limitante” infarinatura di storia d’arte, a rendere difficile il miracolo.

Maestro del fundraising“, così qualcuno ha chiamato il nuovo direttore del MET di New York, Max Hollein.

Recessione per tutti

La recessione c’è stata per tutti, in particolar modo per le strutture museali. La situazione è generalizzata, negli States come in Europa, mentre forse in Cina (l’altro mio campo di competenza) si assiste ancora a un mercato in crescita. Certo, ci sono realtà in crescita netta e a tratti surreali, come gli Emirati Arabi, per fare un esempio, ma consideriamo la situazione “occidentale”: il mercato dell’arte è un pugile ferito, che si ritira nell’angolo a farsi massaggiare e a pensare alla prossima strategia.

Il fundraising e le strategie

Questa strategia è, oltre alla promozione, il fundraising. Se le cronache dicono il vero, Max Hollein da quando aveva trent’anni dirige musei, ora ne ha 48. Ha cominciato con il Guggenheim, tanto per dire, dirige il Fine Arts Museum di San Francisco, e da agosto si occuperà anche del Met.

Esperto di nuove tecnologie e laureato in economia, sarà senza ombra di dubbio la figura necessaria per risanare i buchi di bilancio che vengono attribuiti a Thomas Campbell (chissà poi qual è la reale catena delle responsabilità).

Come ho già detto altrove, la capacità di raccogliere fondi, di trovare sponsorship, di fare rete, è quanto i musei necessitano oggi.

Venuto meno un finanziamento statale univoco, e qui parlo dell’Italia, venuta meno anche un’élite di funzionari dello spettacolo, dobbiamo tornare alla figura dell’impresario.

L’impresario calante

Non dico che negli anni ’40 tale figura fosse scemata. Credo anzi che si tenda troppo spesso a insegnare nelle scuole che sono la crème culturale italiana (io ho fatto un liceo classico, ai tempi che furono), che la cultura è in qualche modo astrazione. Dinamica, magari, se si ha fortuna con l’insegnante, e non statica, ma pur sempre astratta. Parlo dei miei coetanei che al momento potrebbero essere ai vertici di importanti istituzioni museali.

Comunque, vedremo se l’austriaco Hollein saprà dimostrare che un impresario è quello che serve a New York. E vedremo se il costo del biglietto tornerà a zero.

 

Geniale la trovata marketing di Renzo Rosso, fondatore di Diesel, la nostra casa di moda con sede nella veneta Breganze.

Come trasformare un fenomeno che mina alla stabilità stessa del proprio brand, quale è la falsificazione? Ma è semplice.

Auto-falsificarsi il brand

Così ha fatto Rosso, aprendo un negozietto “Deisel” in Canal Street, ChinaTown. Se l’abbigliamento da strada newyorchese non guadagnerà magari in incremento da questa capata delle multinazionali della moda, e per di più italiane, lo faranno i fortunati acquirenti dei prodotti Deisel. Infatti l’inserimento di telecamere agli angoli dello shop ha consentito di registrare le reazioni diffidenti dei clienti. Cosa che non ha impedito di comprare loro gli oggetti, molto simili al brand Diesel originale, con lievissime modifiche e un ovvio livellamento sui prezzi della zona. Quindi, molto bassi.

Anche l’assetto del negozio ha voluto rispettare il disordine e la scarsa organizzazione tipici dei negozi di una certa (bassa) caratura. Ma il marchio falsificato non ha fermato i clienti dall’acquisto.

Come ipotizza Rosso, gli stessi oggetti acquisiranno un valore di mercato molto superiore quando si capirà che erano pezzi unici, e gli utenti li rivenderanno su internet.

Una piccola perdita di fatturato, quindi, per via dell’abbassamento considerevole dei prezzi, in nome di una lungimirante scelta di marketing futura.

Certo, una multinazionale della moda può sicuramente permetterselo senza speculare troppo sull’esito favorevole o meno dell’iniziativa.

Quel che possiamo dire con occhio semiotico è che auto-taroccarsi per combattere in veste pubblica il taroccamento è un’arma a doppio taglio. Da un lato, dimostrare che prodotti taroccati possono essere “buoni”, sarà una necessaria conclusione. Dall’altro, l’autoironia in comunicazione sembra che premi sempre, forse soprattutto negli ambiti artistici (quindi anche della moda). Laddove la fidelizzazione non si basa forse su principi puramente fideistici, ma piuttosto su adesioni entusiastiche e irrazionali.

Alla faccia della scelte consapevoli di brand.

(articolo originale letto qui)

Si avvicina il primo marzo, data fatidica dalla quale si inizierà a pagare il biglietto per entrare al Met di New Work. In ambito di cura museale e critica d’arte, la notizia non è certo accolta di buon grado.

Ma prima non si pagava, al Met?

Passato dal pay as you wish, ovvero l’offerta libera, il colosso dell’intrattenimento di qualità forse più conosciuto di New Yotk all’estero, cesserà la propria politcy libertaria. Il motivo sembra essere un buco di bilancio abbastanza consistente. Convinto a licenziare curatori, il direttore Thomas Campbell, e addirittura a interrompere alcune mostre in corso d’opera, il Met è quindi in difficoltà.

Se su questo dato lasciamo la competenza ai curatori museali newyorkers, possiamo in tutta serenità pensare alla nostra situazione italiana, e occuparci di quella. Quanti musei a entrata gratuita abbiamo in Italia? Ricordo non troppi anni fa lo stupore dell’entrare alla National Gallery, patrimonio artistico unico, inimitabile. Il pay as you wish era nella forma di un’urna trasparente, come quelle delle mance in alcuni locali e pub.

Non mi risulta che la National Gallery stesse affrontando una situazione di bilancio complessa, almeno quanto quella che le cronache attribuiscono al Met.

Ma mi posso spiegare l’insorgere dell’opinione pubblica contro il provvedimento, anche perché vedo delle cifre di biglietti che risultano abbastanza onerose per il consumatore. Lo stesso cospargersi il capo di cenere si è visto quanto un simile innalzamento repentino ha avuto luogo per gli Uffizi di Firenze.

Insomma, valutate le comprensibili necessità di bilancio: una via di mezzo, come un biglietto a prezzo popolare, non potrebbe essere una soluzione? Con la debita campagna pubblicitaria, per la quale sto già elaborando titoli. “Meet the Met” è finora in cima alla lista.

 

Alla Met Fifth Avenue omaggeranno il “Divine Draftsman and designer” Michelangelo Buonarroti.

Il Metropolitan Museum of Art dimostra, come necessario per un museo del suo calibro, un costante interesse per il Rinascimento italiano e in particolare per l’aspetto disegnativo di questo suo colossale esponente. Draftsman Michelangelo lo fu sicuramnte, prima ancora che cimentarsi nell’arte figurativa a tutto tondo rappresentata dalla pittura.

Sono annunciati per l’esposizione più di 130 disegni, tre sculture e il suo primo dipinto da aspirante artista, realizzato a quanto pare quando era appena dodicenne.

L’aspetto disegnativo di Michelangelo è in effetti iconico, non solo come storia dell’arte da qui al passato, ma anche nella percezione comune. Un tondo Doni e un Mosé, cosa possono avere in comune se non la fattezza, l’humanitas che anni di scuola dell’obbligo hanno contribuito a fissare nella nsotra memoria?

“Draft” è quindi diventato il tema dell’abilità creativa di questo artista. Una draft-star, direi!

Altro gran disegnatore italiano omaggiato nel 2003, sempre dal Met, è stato Leonardo. Chi se non lui aveva fatto del labor limae della matita un fattore altamente distintivo? Un altro autore italiano iconico, peraltro.

Ricordo il celebre cìparagone che sif aceva tra i due, raffrontando i cartoni della battaglia di Anghiari e di quella di Cascina. In quella michelangiolesca di Anghiari, i corpi contorti si avvinghiano con precisione anatomica e un moto costaante e circostanziato alla scena. Diversissima da quella Cascina col cranio dell’uomo dall’espressione disumana così evidente. A ricordarci in realtà la disumanità del realismo, stavolta non affibbiato a una classe sociale ma alla crudezza della guerra, come fatto interiore prima che come dinamica collettiva.

Fatti entrambi per essere esposti nelle sale di Palazzo Vecchio, i due cartoni non furono in realtà mai completati dagli artisti originari. Aristotile da Sangallo finisce Michelangelo, mentre Leonardo è consegnato all’umidità dell’ambiente e completamente perduto.