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Il concetto di proprietà culturale è ovvio che si leghi a doppio filo a quello di retribuzione della stessa. Ne ho parlato in tre occasioni, da un lato valutando la retribuzione per coloro che contribuissero al patrimonio culturale digitalizzato. Dall’altro considerando che contribuire al patrimonio collettivo non esula dal riconoscimento della proprietà intellettuale. Considerando questo riconoscimento, non si può esulare da una retribuzione.

I cultural data

Però non ho considerato tutti gli aspetti della questione: di chi sono i dati culturali che fanno parte di una banca dati (perdonate il gioco di parole) reperibile online? Innanzi tutto, bisogna scomodare un nuovo conio, il termine “cultural data”:

Il termine “cultural data” è stato coniato da Lev Manovich, scrittore e docente di Computer Science Program delle City University di New York nel 2007 e ripreso nel 2014 dall’archeologo Neil Asher Silberman, sulla rivista giuridica International Journal of Cultural Property profetizzando il passaggio da beni culturali “materiali” a cultural data ossia riproduzioni, in formato digitale, di opere d’arte o monumenti esistenti o, più in generale, il corredo di informazioni culturali in cui l’arte è smaterializzata.

(da Il Sole24Ore)

Digitalizzare la cultura

Qui il caso della proprietà intellettuale è ben diverso dal caso di Diderot, di cui ho parlato. E’ diverso nella misura in cui il contributore dell’Enciclopedia è autore anche morale del contenuto. Ad esempio, in una voce su un autore letterario, sarà comunque l’enciclopedista il responsabile dell’organizzazione dei pensieri che sottosta alla voce in questione. L’autore letterario, proprietario della propria opera, non potrà rivendicare anche il possesso su quest’altra, frutto di un’altra elaborazione intellettuale.

Il caso dell’editore

Ci può aiutare a dirimere la questione, a mio parere, il caso dell’editore. In che misura l’editore e il distributore sono proprietari del materiale intellettuale ceduto? Ci sono dei contratti e delle percentuali di utilizzo consentito (nel caso della fotocopia, ad esempio) che regolano questo tipo di proprietà.

Ma il caso dei cultural data è diverso. (Continua)

A chi mi dirà che non è propriamente quello che si intende per “digitalizzare la cultura”, rispondo: non facciamone una questione terminologica. Il suffisso “-izzare” non è incoativo né frequentativo, come insegna la grammatica scolastica.

Rendere digitale

Questa nel titolo sarebbe, per chi la grammatica ha cessato di masticarla, la traduzione della chiosa del primo paragrafo. Cosa significa “digitalizzare”? Non si parla certo di incoativo, e cioé di “iniziare” una digitalizzazione, anche se in molti casi così è percepito il verbo, e così avviene.

Ma succede che in molte realtà, specialmente periferiche o a investimento pubblico non proprio intenso, in Italia, il verbo venga concepito in questo modo. Attenzione, è una conseguenza, non un “sema”.

Continuare su una strada

L’idea di “continuare su una strada” e cioè del verbo nel suo senso frequentativo, è pure una costruzione posteriore. Per gli avveniristi e chi propone un continuum con amministrazioni precedenti (sto parlando ad esempio del caso dei musei e delle istituzioni culturali), continuare è fondamentale.

Ancora, una costruzione logica posteriore.

Il wifi e il terzo significato

Il wi-fi quindi non rientra piuttosto appieno nel fraintendimento quasi suggerito del verbo “digitalizzare” in questo senso? Da un lato, novità digitale. Dall’altro, percezione di un processo di tecnologizzazione, o meglio di connessione, degli spazi pubblici e d’interesse culturale-artistico in Italia. Ebbene, sì, forse parlare di digitalizzazione è un’appropriazione indebita.

Ma questo è quanto accade per la Reggia. Il digitale sta prendendo piede, grazie al loro obiettivo tematico 6, che prevede di migliorare la fruibilità dello spazio pubblico. Questo non impatta se non in seconda battuta sulla fruizione culturale. Secondo obiettivo, e qui subentra il frequentativo, è creare una rete hardware più efficiente e una piattaforma open data. E qui subentra il terzo significato del verbo, che secondo me parlando di cultura e fruizione più affrontabile per tutti: intensivo.

Digitalizzare la cultura ha un senso intensivo.

 

Me lo sono già chiesto relativamente alla retribuzione, e ora è necessario allargare il discorso alla proprietà intellettuale: di chi è la riproduzione 3d di una città?

I Buddha Bamiyan

Mi ricordo la morsa di sconforto che colse l’opinione pubblica, quando nel 2001 circolò la notizia che i Taliban avevano distrutto i Buddha Bamiyan. Un paio d’anni dopo l’Unesco li ha inseriti nel proprio Patrimonio dell’Umanità, promettendo di risanarli dagli ingenti danni subiti.

Uno dei risanamenti più consistenti, emblematici, se vogliamo, è la digitalizzazione. Laddove l’ambiente dei Buddha è stato digitalizzato per consentirne la visione, si possono vedere le statue nella loro bellezza originaria: prima che gli stucchi venissero lavati via dalle intemperie, gli angoli della viva roccia smorzati, il colore pian piano omologato a quello del resto della montagna per ossidazione.

Almeno, questo dovrebbe essere il proposito della digitalizzazione.

Ma quindi, di chi sono?

E arriviamo alla domanda: a chi appartengono i cultural data prodotti grazie a competenze specifiche, e anche con una certa dose di senso artistico, da questi archeologi digitali?

Più che di proprietà sulle tecniche di lavoro, quindi, ha senso pensare: l digitalizzazione, cambiando l’ambiente di fruizione dell’opera, diventa un prodotto privato? E’ una distinzione importante, perché il prodotto privato cambia totalmente nelle modalità di fruizione.

E chi ha la mia età non può non ricordarsi gli entusiastici pellegrinaggi dei buddisti occidentali a visitare i Buddha Bamiyan, massima esposizione del Buddismo del Centrasia del III  e V secolo.

La fruizione

Quindi, la fruizione delle singole opere digitalizzate metterà chiaramente in discussione la loro natura “pubblica”. Tralasciando per un momento il discorso sul diritto d’autore: l’unico parametro per valutare se un cultural data verrà considerato pubblico o privato, sarà vedere a chi è destinata la fruizione, e come avviene.

Solo in base a queste considerazioni squisitamente pratiche riusciremo a capire di chi è il patrimonio artistico digitale.

 

Come avevo già visto nel museo Opera Duomo, la necessità di digitalizzare la cultura sembra una frontiera non solo trendy, ma anche necessaria per lo sviluppo bilaterale della fruizione d’arte.

La fruizione liquida

Bilaterale perché non richiede solo un necessario minor impegno, ovvero imbonimento, dell’utenza, ma anche un perfezionamento poetico ed estetico dell’opera d’arte in sé, che spesso come entità diviene fluida per essere recepita in modo attuale.

La digitalizzazione della cultura reca innumerevoli problematiche, sulle quali mi sono soffermato: la difficoltà nell’attribuzione della proprietà intellettuale è una di queste, che porta con sé la necessità o meno di retribuzione, mettendo quindi in discussione l’esistenza stessa della figura di artista.

Ma veniamo al Palazzo Reale

E’ stato presentato a fine giugno dal Presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè nell’ambito del convegno internazionale “Il palazzo disvelato” dedicato alla reggia palermitana e agli altri luoghi del potere mediterraneo (26-29 giugno – Sala Mattarella dell’Assemblea regionale). IL Palazzo rappresenta una straordinaria sintesi di culture, quella araba come quella greco-bizantina e normanna. Un caso di sovrapposizione al quale siamo abituati in questa Regione crocevia di culture, spugna culturale e architettonica, spersa in un mare che in qualsiasi epoca storica lo si analizza appare come sovraffollato.

IL progetto vede grandi nomi della tutela del patrimonio storico e architettonico dei palazzi del potere, che si collocano, come riporta un articolo Ansa, da Istanbul al Cairo.

Palermo prende posto in questa disamina.

Da chi nasce

Nato da Ars, un gruppo interdisciplinare dell’Università della Tuscia e la Tecno-Art aggiudicataria del bando per un costo di circa 500 mila euro, il progetto ha avuto inizio nel 2010, ed è stato coordinato da Ruggero Longo.

“Dopo 8 anni, lo studio giunge oggi a compimento con la realizzazione di una piattaforma digitale virtuale innovativa, che interagisce con innumerevoli banche dati creando uno straordinario archivio multimediale che consente l’accesso a un grandissimo numero di informazioni”.