Nemmeno quest’anno potevamo esimerci dal coro abituale di polemiche che accompagnano il festival di Sanremo. Non ho mai parlato di questa kermesse, forse perché con un certo velato snobismo l’ho considerata una forma di non-cultura.

Ma ci provo quest’anno, perché avendolo visto quasi per caso ho notato un divario evidente e incolmabile con quello che Sanremo era almeno fino a 10 anni fa. 

Innanzi tutto, devo dire che il format si sta davvero svecchiando. Per chi è abituato a guardare la tv con una certa regolarità, si nota immediatamente com altri programmi in prima serata siano rimasti lenti, farraginosi, adatti a riempire il tempo.

Differenza abissale con i contenuti che nascono per brevi lassi di tempo libero, come i film – sempre più brevi, ormai rimaniamo dentro l’ora e mezza quasi sempre! – e le ormai inflazionatissime serie tv, pensate per un pubblico che dopo 30-40 minuti già si annoia, e preferisce riprendere la storia da dove l’ha lasciata il giorno prima o la settimana prima, come un feuilleton. 

Ma un’altra grande differenza sono i cantanti in gara. Lo so, sto ripetendo qualcosa che è già stato da molti detto, ma una volta i Big erano davvero Big.

Non c’erano dei semi sconosciuti, la cultura musicale era meno granulare, più condivisa.

Oggi certo, non dubito che Geolier abbia un ampio pubblico. Ma un pensionato della Monza-Brianza, senza figli e nipoti, può conoscerlo?

Non è responsabilità degli autori o dei direttori artistici, chiaramente. Si tratta anche di un segno dei tempi: Sanremo non potrà mai tornare a rappresentare una condivisione musicale nazionale, perché la nazione non esiste più, la musica condivisa non esiste più.

Esistono i discografici di successo, le produzioni ricche, e le giovani meteore, che appassiranno al suono del prossimo altrettanto effimero genere musicale.

Quindi no, non chiedetemi di riguardare Sanremo. Una volta m’è bastata!