Archives for category: Senza categoria

Apre la mostra “Painting is back. Anni Ottanta, la pittura in Italia” alle Gallerie d’Italia, la galleria di Intesa san Paolo a Milano; una mostra che mette in scena alcuni momenti più rilevanti della pittura anni ’80 della nostra penisola.

Una Galleria d’Italia per i beffardi anni ’80

Erano beffardi, metà Manzoni e metà Fontana, ma spesso con l’ammiccante allusività di De Chirico. I pittori degli anni ’80 sono tra i più conosciuti anche da chi no segue l’arte contemporanea e ha soltanto un’infarinatura scolastica di quello che fu un movimento intrinsecamente rivoluzionario per la nostra storia dell’arte.

Lo stesso titolo “painting is back” voluto da Luca Massimo Barbero, Curatore Associato delle Collezioni di Arte Moderna e Contemporanea di Intesa Sanpaolo, è rivoluzionario. In un’epoca in cui la pesantezza pandemica ci ha costretti in casa e impauriti di fronte a un male gestionale e virale più grande di noi, è il momento di riscoprire la bellezza.

Ecco che quindi proprio questi pittori vengono rispolverati per consegnare uno sguardo eterogeneo e sfaccettato.

Il percorso espositivo alle Gallerie d’Italia

La mostra si aprirà con i protagonisti della Transavanguardia, il movimento di Achille Bonito Oliva nato e diffuso dalle pagine di Flash Art, come si conviene a ogni avanguardia dell’epoca. Abbiamo anche Sandro Chia, Mimmo Germanà ed Ernesto Tatafiore. Francesco Clemente, Nicola De Maria e la pittura murale, Aldo Spoldi, Enzo Cucchi e il suo iconico Le stimmate (1980).

SI anticipano anche opere di Mimmo Rotella, Valerio Adami o anche Emilio Tadini.

Ci saranno anche, come riportato dalla presentazione della mostra: Enrico Baj, a cui è dedicata un’intera sala, Mario Schifano, Salvo, Franco Angeli, Aldo Mondino.

Come si vede, un bel catalogo variegato per farsi un’idea chiara dei vari fili che venivano tratteggiati in questo panorama composito e fervente di nuove spinte avanguardistiche.

La mostra sarà aperta fino al 3 ottobre 2021.

Don Chisciotte è considerato dagli storici della letteratura uno dei libri più importanti di tutti i tempi, ed è spesso citato come il primo romanzo moderno. Il personaggio di Chisciotte divenne un archetipo, e la parola Chisciotte, usata per indicare il perseguimento impraticabile di obiettivi idealistici, entrò nell’uso comune.

Spesso mi sono chiesto quale sia il messaggio principale di Don Chisciotte. Scritto da Miguel de Cervantes Saavedra, Don Chisciotte è un romanzo che parla di un uomo e del suo ‘scudiero’ che cercano di dimostrare che la cavalleria non è morta e aspirano ad essere eroi. Ci sono temi di cavalleria, romanticismo e sanità mentale in questo romanzo in due parti.

Successivamente, la domanda è: Don Chisciotte è una storia vera? Don Chisciotte. La storia “vera”. Verdadera historia (“Storia vera”) è un’espressione che ricorre in numerose occasioni nel Don Chisciotte, per lo più riferita a Don Chisciotte stesso, anche se occasionalmente allude a individui storici (per esempio, Parte I, 32 la vera storia dello storico Gonzalo Hernández de Córdoba).

Oltre a questo, cosa ha fatto Don Chisciotte?

Don Chisciotte è un gentiluomo di mezza età della regione della Mancia, nella Spagna centrale. Ossessionato dagli ideali cavallereschi propagandati nei libri che ha letto, decide di impugnare la lancia e la spada per difendere gli indifesi e distruggere i malvagi.

Chiediamoci però cosa rappresentano i mulini a vento nella vita reale di Don Chisciotte.

Con le loro “lunghe braccia” e i loro alti telai, funzionano come caricature di giganti. Un’altra possibile interpretazione è che i mulini a vento rappresentano la tecnologia, la distruzione del passato e la perdita dei valori cavallereschi.

I due principali conflitti nel Don Chisciotte sono quelli della persona contro se stessa e persona contro società. Questa storia è persona contro se stessa perché Don Chisciotte si è intrappolato nel suo mondo.

Il povero Patroclo, amico e amante di Achille e oggetto del suo desiderio, viene spesso dipinto con un povero inetto.

Non parlo ovviamente dell’Iliade, che ne dà un’immagine ben definita e addirittura dotata di personale sfoggio di coraggio.

Parlo piuttosto della vulgata, dell’immagine che ci siamo tutti fatti di questo mortale sempre stampella del più famoso e valoroso Achille. In realtà chi ha studiato un po’ meglio le pagine omeriche, sa che Patroclo è protagonista di una vera e propria aristìa, cioè il momento in cui si mettono in mostra tutte le proprie abilità belligeranti uccidendo un numero di solito spropositato di nemici.

Per Patroclo l’aristia assume tratti iperbolici quasi surreali. Compie una strage di 27 nemici in soli tre assalti. Il problema è che alla fine nella propria dimostrazione di valore si ostina a inseguire i Lici e i Troiani.

Il narratore onnisciente attribuisce a questa sua mancanza la nera sorte che mi toccherà: di nuovo il commento del poeta onnisciente arriva quando Patroclo si lancia nuovamente nella mischia. Gli viene chiesto, in un’apostrofe che ha lo scopo di scuscitare pathos: “a chi allora per primo, a chi togliesti per ultimo l’armi, quando gli dei ti chiamarono a morte”?

Patroclo e l’ubris

Ho citato il passaggio solo per non dare adito a interpretazioni: si è portati a credere che l’eccessiva manifestazione di buone qualità (ubris) scontenti dei olimpici, ed è quasi sempre così per gli altri.

Però in questo caso il poeta è più che altro in empatia con Patroclo. Gli dice di tornare a casa, di ripararsi, di sfuggire dal Fato, non che le sue azioni eroiche sono eccessivamente iperboliche e gli stanno provocando la morte.

È evidente che a differenza di altri personaggi, Patroclo suscita la compassione reale del poeta, l’immedesimazione. Un poveretto, più che una minaccia, per gli dei.

Probabilmente era il personaggio in cui davvero l’uditorio si immedesimava, quella del povero mortale sottostante al fascino di qualcuno di infinitamente superiore a sé, Achille.

Forse come l’uomo di teatro che sottostava al fascino degli attori in scena, della  messinscena stessa.

Il fallimento per un esploratore fa parte del gioco. Così almeno verrebbe da credere a noi moderni, alla luce della vita e esplorazioni di Ernest Shackelton, autore del grandioso fallimento della spedizione in Antartide.

In realtà, leggendo il memoir di Shackelton, “Sud”, ci rendiamo conto che spesso il fallimento diventa un modo comune, quasi sistematico, per affrontare il grande mondo dell’esplorazione geografica.

Ma andiamo con ordine.

Shackelton e il fallimento della missione in Antartide

La storia si è svolta in un modo piuttosto semplice e lineare: a fronte di una programmazione dettagliata della spedizione in Antartide, il baldanzoso esploratore nel 1915 sbagliò semplicemente i calcoli: la sua nave e l’equipaggio rimasero intrappolati nei ghiacci. 

Nel buio, in mezzo al nulla, furono così costretti a tornare a casa. La storia del recupero è secondo me molto affascinante, ma merita di essere letta dal pugno di chi l’ha vissuta, e quindi vi devo consigliare la lettura integrale del memoir “Sud”, disponibile in libreria ma anche in e-book, per i più impavidi.

Quello che in realtà mi colpisce di più di questa storia è che Shackelton fu sottoposto anche a diversi travagli nella vita personale.

E in qualche modo, ne uscì eroicamente.

Eroismo e fallimento

Vita amorosa non soddisfacente (a suo dire), alcolismo: vari e pesanti furono i disagi che accompagnarono Shackelton, che dal proprio auto-ritratto emerge con un’aura da misterioso e dannato che ben si accorda con la figura dell’esploratore.

Però, com’è possibile che sia riuscito a convivere con quelli che la sua epoca certamente etichettava come costanti fallimenti? Cosa ha reso possibile la riabilitazione che riesce a fare di se stesso nel memoir “Sud”?

Forse, stiamo guardando la questione con gli occhi appannati. Pensiamo all’afflato stesso dell’esplorazione: andare all’ignoto, ricercare la Verità, e forse non tornarne mai vivi. Lo stesso fascino che siamo abituati ad assegnare a Moby Dick ricade quindi sull’esploratore fallimentare. Facile essere eroici quando scopri il Polo Nord, ma quando rimani intrappolato nei ghiacci, e non cedi al disonore, cammini per chilometri al gelo e ne esci?

Shackelton può insegnarci moltissimo sulla gestione del fallimento nelle esplorazioni, e a non considerarlo più come tale. Leggetevi “Sud”, e fatemi sapere cosa ne pensate!

 

“Prendete il weekend 22-23 febbraio 2020. Al cinema potevate scegliere tra l’americano Era mio figlio, con Samuel L. Jackson, o l’immancabile commedia italiana La mia banda suona il pop. Alla Scala era in programmazione Il trovatore, diretto da Nicola Luisotti, mentre al Teatro Quirino di Roma c’era Alessandro Siani con Felicità Tour. Al Forum di Assago avevano appena tolto le tende i Jonas Brothers e si preparava il set dei Pinguini Tattici Nucleari, reduci dal terzo posto a Sanremo”. 

Inizia così la bellissima inchiesta del Sole24Ore, a un anno dal temibile lockdown 2020. Il titolo è “Vi ricordate com’era prima? L’anno zero di concerti, cinema e teatri”. Prima di cliccare sul link, vi devo avvisare con buon cuore che il contenuto è riservato ai soli abbonati al servizio 24+.

Vale la pena solo per leggere questa inchiesta, che ci racconta con la forza disarmante dei dati  di un settore che ha perso 4,1 miliardi in un anno. 1.3 milioni di eventi contro i 4.36 milioni del 2019, -77.58% di spesa solo al botteghino. 

Gennaio, febbraio e la finestra di tempo da giugno a ottobre non sono bastati, e ora possiamo vedere chiaramente di fronte a noi un quadro completo di questa devastazione.

Buon Dantedì a tutti e a tutte!

Per una volta una ricorrenza nazionale viene unanimamente seguita da una larga fascia di popolazione.

Abbiamo i giovanissimi – obbligati da insegnanti, tutor, DAD e chi più ne ha, più ne metta.

Abbiamo gli anziani come me, viziati da una visione del mondo romanticamente letteraria e dei grandi ideali.

E abbiamo poi i giovani, sbalzati dai loro posti di lavoro o dalle loro università, e i meno giovani che forse qualche garanzia in più l’avevano accumulata, che dopo anni di dimenticanza del Sommo Poeta potrebbero averlo oggi riscoperto.

Dante è un poeta per tutti questi, reietti ed esiliati, vincitori e baroni: non c’è una tendenza unica, non c’è un’interpretazione che valga per tutti.

La Divina Commedia

Da chi preferisce il clima fosco e tormentato dell’Inferno.

Qui gli strali politici e verbali della peggior specie, personaggi grotteschi che gli uni sugli altri si accumulano e lanciano invettive e maledizioni.
C’è poi il Purgatorio, che trovo francamente il meno frequentato, anche dai critici letterari.
Qui abbiamo la messa in piazza della penitenza come modalità di riscatto da una situazione limbica.
forse proprio per questo è meno frequentato, perché più in cattedra, con un occhio alle pene del piano inferiore ma un tono più smorzato è molto meno socialmente critico.
E infine c’è il Paradiso.

Solitamente disdegnato dai più giovani è riscoperto in tarda età, il Paradiso è il capolavoro poetico del poeta fiorentino.

Una lingua sorvegliata e un registro aulico, dopo la salita di tono delle tre Cantiche, conferiscono a questa opera straordinaria il potere di coronare quella che è l’epopea dell’umanità.

Buon Dantedì!

In questo periodo di incertezza e di dubbi e condizioni politiche può aver senso riscoprire la Divina Commedia come opera massima del sommo poeta.

Chissà che alcuni risvolti del Purgatorio, proprio la Cantica dimenticata, non possano omologarsi alla nostra condizione attuale…

Concludevo il mio post precedente parlando del mercimonio di opere che vengono definite arte.

Sebbene io sappia che il discorso su cosa possa essere definito arte è infinito, vorrei toccarlo tangenzialmente. Ma solo per arrivare all’argomento che davvero mi interessa: il possesso dell’opera d’arte.

Che cos’è l’arte, in due parole?

Dunque,  senza bisogno di scomodare la filosofia estetica di Baumgarten e di Heidegger, possiamo soffermarci su una brevissima definizione di arte da come la intende il mercato: l’incontro della domanda, anche creata, e dell’offerta da parte di un mondo generalmente riconosciuto come “artistico”.

Il “mondo artistico”

Si intende con “artistico” un mondo che faccia già parte di un determinato circuito, che abbia determinati iter procedurali riconosciuti come connessi all'”arte”.

Faccio un esempio: un artista di strada espone la sua opera in pubblico. Certo, Si differenzia da un pittore tradizionale perché crea la sua opera di nascosto e spesso in contravvenzione ad alcuni regolamenti urbani.

Spesso però è vittima di una vera e propria filosofia artistica, e questo fa di lui un riconosciuto membro del “mondo artistico”.

Arte e possesso

Il caso del cosiddetto RTF in realtà molto utile per delimitare un altro concetto che si lega indissolubilmente all’arte: quello del possesso.

Chi possiede le pitture murali ritrovate nella casa di Goya dopo la sua morte?

 Ma soprattutto, chi possiede La Gioconda con i baffi di Duchamp?

 Se per la prima possiamo aprire un capitolo legale, per la seconda la risposta al quesito sembra più facile la risposta: Duchamp la possiede,  prima di averla venduta. E dopo averla venduta, la possiede il compratore.

Come ho iniziato a dire in questo articolo però, ci sono alcune correnti artistiche che si arrogano il diritto di commercializzare arte infinitamente riproducibile e altamente tecnica non prodotta interamente da loro.

La rivendicazione del possesso diventa quindi puramente commerciale, o meglio il risultato di una lotta di potere e volontà di potenza.

È il caso degli NFT, di cui parlo nell’articolo sopra menzionato. 

Come per l’occupazione di immobile, anche negli NFT applicati al mondo degli oggetti digitali e del collezionismo, l’ultimo che arriva pianta la bandierina.

Ecco che quindi la schiacciata di LeBron James e può essere venduta a milioni di dollari, e una piazza prima pubblica può essere monopolizzata – giustamente – da un gruppo di manifestanti.

Un possesso labile

Il possesso della schiacciata di LeBron e della piazza diventa quindi labile e meno chiaro, paradossalmente, anche perché si mescola al paradosso del semi plagio, se vogliamo parlare di arte.

La Gioconda con i baffi di Duchamp è un’opera d’altri, resa iconica da altri, con una storia d’altri. Una piccola aggiunta, un “tag” da graffitaro, ed ecco che diventa d’altri.

In realtà ci possiamo scandalizzare per il mercimonio che viene configurato dagli NFT, ma già l’avevamo visto in opera.

C’è già chi dichiara di possedere opere di cui non ha mai comprato i diritti.

Ma per favore, non perdiamoci in orizzonti troppo filosofici. Vorrei solo dire che per quanto riguarda l’arte contemporanea ne vedremo delle belle, ma ne abbiamo anche già viste tante.



Continua da questo articolo.

Parlavamo di NFT e di arte digitale, dopo che Christie’s ha iniziato a sdoganarli per il commercio delle opere d’arte.
Gli NFT sono una nuova tecnologia in grado di garantire al singolo pezzo d’arte una sorta di certificato di autenticità. Oltre al doveroso riconoscimento all’artista di un corrispettivo per la propria opera, c’è un altro aspetto molto interessante.

Le royalties nell’arte digitale

L’artista digitale può infatti impostare questo certificato in modo da ricevere delle royalties a ogni nuova transazione dell’opera.

Questa è una novità molto interessante perché esula dal contratto economico con impresario o manager d’arte, che una volta acquistata l’opera d’arte per la prima volta, la rivalutano spesso a prezzi molto più elevati dell’originario.

Non è chiaramente sempre così, ma dipende da come viene gestita questa tecnologia.

Un’arte decentrata

Un vantaggio consistente della blockchain è quello di essere decentralizzata.

Questo l’ha resa una tecnologia molto minacciosa per i grandi istituti di credito, soprattutto alla nascita della criptovaluta Bitcoin.

Infatti, queste transazioni non vengono garantite da un intermediario e non possono essere modificabili. La blockchain garantisce che tutti gli utenti che si iscrivono alla rete abbiano piena visibilità di tutte le transazioni.

Se si desidera mantenere la propria identità anonima, si può, ma si verrà sempre e comunque identificati da un determinato “blocco” di codice.

Un esempio pratico

In sostanza, chi andrà a vedere la riproduzione digitale della Vergine delle Rocce di Leonardo da Vinci, potrà accedere a una stringa di codice che indica il primo proprietario, il certificato di autenticità e tutte le transazioni successive.

Sebbene non si comprenda interamente la necessità di distribuire su un gruppo di utenti la visibilità di queste transazioni, il processo rimane interessante.

Sviluppi futuri

Tra gli sviluppi futuri che avrebbe senso fare si potrebbe inserire una valutazione da parte di un organismo di critica d’arte.

Questo esulerebbe dalle leggi del libero mercato ma renderebbe l’opera d’arte, in un certo qual senso, appartenente a una rete quindi maggiormente valutata e controllabile.

Uno dei rischi più grandi che intravedo – che già si sta verificando – è che ogni cosa diventi un oggetto d’arte, semplicemente perché il proprietario è in grado di venderla a una somma considerevole a chiunque sia disponibile a spendere i propri soldi online.

Già siamo di fronte a un mercimonio di opere che vengono definite “d’arte”. Potrebbe essere che siamo di fronte alla definitiva crisi dell’arte contemporanea?

Oggi vorrei parlare del processo dell’arte digitale verso una più sicura e condivisa certificazione di autenticità. 

La infinita riproducibilità tecnica delle opere digitali

Primo presupposto: uno dei problemi principali delle opere d’arte in formato digitale è, come diceva Walter Benjamin, l’infinita riproducibilità tecnica.

Se nell’antichità per riconoscere un falsario serviva un critico d’arte o un esperto di materiali, che potesse eventualmente sbugiardare la contraffazione, con l’opera d’arte digitale il discorso è più complesso. 

Il processo di certificazione dell’arte digitale

Molto spesso infatti basta salvare un’immagine che si vede online per averne una copia perfettamente conforme all’interno del proprio computer. 

Di fronte a questa considerazione abbastanza semplice possiamo capire perché la nota casa d’arte Christie’s abbia iniziato a mettere in vendita NFT di opere d’arte digitali. 

Cosa sono gli NFT

Gli NFT sono non fungible tokens, ovvero una tecnologia in grado di conservare in una piattaforma pubblicamente accessibile tutti i dati sulla transazione di una determinata immagine. 

Mi rendo conto che detta così significhi poco, quindi facciamo un esempio pratico. 

Un artista digitale crea un’animazione 3D che vuole vendere come opera d’arte digitale.  

Per poterlo fare è necessario che acceda a un’apposita piattaforma in grado di fornirgli un NFT. Questo NFT è il corrispettivo digitale di un certificato di originalità.

Attraverso questa stessa piattaforma, grazie alla tecnologia blockchain, questo oggetto può essere messo all’asta e comprato pubblicamente. 

In futuro, chi vorrà a sua volta acquistare questo oggetto potrà essere consapevole dei passaggi che l’opera ha fatto di mano in mano, e attraverso la tecnologia giusta si può anche risalire alla proprietà dell’opera, come anche a chi ne detiene diritti. 

È evidente che una scoperta simile ha completamente rivoluzionato il concetto di riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, perché assegna a una sola opera la caratteristica di autenticità. 

Il potenziale della tecnologia blockchain

Il potenziale della tecnologia blockchain sembra in grado ancora una volta di stupirci.

Ma al di là dell’applicazione per garantire l’ autenticità, ci sono anche altri aspetti interessanti degli NFT, come vedremo nei prossimi articoletti.

Tutti conosciamo la storia di Edipo e alcuni di noi hanno anche avuto la fortuna/sfortuna di incontrare le più disparate interpretazioni della stessa.

L’interpretazione di Frazer del mito di Edipo

Parlo molto vagamente in questo articolo delle interpretazioni che l’antropologia o la psicologia hanno trovato del mito edipico; qui vi dico anche che secondo me quella di Frazer è la più vicina al modo di interpretare la realtà che hanno i Greci della Grecia classica. 

Il succo dell’interpretazione di Frazer è che la storia di Edipo è collegata al personaggio del Re Sacro. 

Quando un re sacro perde il suo potere, la terra diventa sterile. Scoppiano pestilenze nel bestiame e tra gli uomini. A questo punto è necessario o uccidere il re o sacrificare in sua vece una vittima che lo rappresenti e che accolga su di  tutte le impurità.

Il farmaco

In greco questa figura si chiama “farmacòs”, che significa anche “avvelenatore”, e consente di liberare dalle impurità tutte le persone della comunità.

Come ben sappiamo il capro espiatorio alla fine viene ucciso o allontanato dalla comunità. 

Se scegliamo di aderire a questa interpretazione del mito dell’Edipo, possiamo immaginare che Sofocle abbia nascosto nella vicenda di Edipo questa antichissima credenza religiosa.

Il doppio ruolo del protagonista è quello sia di capro espiatorio sia di re, e questo contribuisce ad aumentarne l’intrinseca tragicità. 

Quello che aggrava ancora di più la situazione è che Edipo è stato anche il sacrificatore del re precedente (suo padre) diventandone il successore.

Inoltre, con il proprio auto accecamento ha consegnato la città a un destino migliore, il prossimo re, caricando su di i suoi stessi peccati. 

Vediamo quindi che l’interpretazione interessante del sacrificio del re è un po’ vaga, In più, non tiene conto del fatto che i peccati della città sono in realtà causati dallo stesso Edipo. 

A questo punto verrebbe da chiedersi: ma le interpretazioni dei critici hanno attinenza con la trama o iniziano da vaghe speculazioni suggestive e lontanamente inerenti alla vera storia narrata? 

Non lo sapremo mai. Resta che il mito di Edipo è molto affascinante anche perché suscita molte interpretazioni diverse, anche a un contemporaneo. Come tutte le opere di vera Letteratura, è eterna.