Conversazione con Laura Gherardi: Il banchiere privato

Paolo Bassi. Dopo il liceo, qui a Milano, sono partito per Trento per studiare Sociologia. In quegli anni – era il 1968 – Trento era una comunità universitaria in fermento dentro una città ostile, molto conservatrice.

Una città diversa da Roma, Milano e Torino, e Sociologia era una novità per l’Italia. Lo stesso movimento degli studenti era molto internazionale, collegato con gli studenti berlinesi e francofortesi, in larga parte allievi di Adorno.

Poi, dopo un paio di anni, il movimento è caduto in un degrado assoluto, con diverse frange combattenti a disputarsene le spoglie. E così mi sono messo in movimento e ho deciso di girovagare per le università europee, un girovagare fisico e intellettuale che è durato tre anni, mantenendomi con piccoli lavori e con periodici ritorni a Trento per seguire i corsi che reputavo utili o interessanti e per fare gli esami.

Poi si è laureato e ha iniziato a lavorare nella consulenza…

P.B. Alla LSE avevo conosciuto un professore che lavorava nella consulenza in Italia, ed è stato lui che mi ha introdotto alla società di Pietro Gennaro, a quel tempo il “guru” della consulenza aziendale. Lì ho trovato il mio filo conduttore.

Pietro Gennaro è stato uno dei fondatori della consulenza strategica in Italia, trasferiva il sapere americano nelle aziende italiane, che erano ancora le aziende delle grandi famiglie. In questo campo potevo esprimere una parte di me che nei contesti a cui ero abituato era sacrificata e, nello stesso tempo, materie come la psicologia e l’antropologia mi erano estremamente utili. I miei colleghi, invece, avevano una conoscenza specialistica, venivano per lo più da economia, dalla Bocconi.

Le cose tecniche si imparano presto, ma nella consulenza serve una formazione che non si acquisisce sui manuali, bensì frequentando e lavorando con persone “indisciplinate” quanto a modo di pensare e affrontare i problemi, cioè abituate a pensare in forma non convenzionale, fuori dalle discipline codificate dall’università. Persone che conoscono i cento casi studi di successo, ma sono pronte ad abbandonarli per crearne uno nuovo.

È più utile aver letto Omero da giovane in greco, o saper distinguere le costellazioni in ogni emisfero, che leggere il primo libro nella classifica delle riviste manageriali. Il grande consulente Peter Drucker ci teneva a sottolineare di essere un puro prodotto del ginnasio tedesco degli anni trenta.

In quegli anni ho imparato cosa fosse il value for money, cioè dare al cliente e alla sua attività valore e non chiacchiere. Il dopo Gennaro è legato a un gruppo che avevo incrociato a Boston. Si chiamava MAC Group, al suo interno vi erano persone per le quali avevo lavorato e con loro è iniziata un’attività molto ampia, davvero internazionale.

L.G. Poi è entrato in Montedison.

P.B. Sì. Avevo conosciuto, sempre per lavoro, Mario Schimberni e quando è diventato presidente della Montedison mi ha chiamato nel gruppo di strategia, e quella è stata una storia straordinaria.

Straordinaria perché con lui è entrata in Montedison, nel quartier generale di Foro Buonaparte e all’Istituto Donegani, una generazione di professionisti giovani. E lui, pur con il suo carattere ruvido, sapeva ascoltare. Straordinaria, inoltre, perché in Montedison abbiamo fatto tutto quello che poi in Italia è diventato comune: la prima quotazione con il doppio listino, a Milano e New York, acquisizioni negli Stati Uniti quando nessuno le faceva, ristrutturazioni, cessioni, una comunicazione tutta culturale, con una particolare attenzione agli aspetti scientifici.

Per me è stata una palestra formidabile. Venivano consulenti dall’America: Michel Porter era di casa, ma anche Kissinger. Venivano le banche d’affari. Era un mondo che prima ignoravo o di cui avevo una conoscenza molto vaga. Ho assorbito tutti questi stimoli, poi, nel 1987, il settembre nero, il crollo di Wall Street: avevamo metà delle attività negli Stati Uniti, in un attimo calate del 50%.

Schimberni stava creando una public company. Quella di Montedison era ormai una storia di successo e questo attirava le invidie dell’establishment, ma soprattutto lui aveva guidato scalate ostili e questo non gli è stato mai perdonato. È stato allontanato a seguito della scalata di Gardini alla Montedison con la benedizione dell’élite industriale e finanziaria.

Per un po’ sono rimasto, mi occupavo della parte internazionale.

L.G. Quindi i suoi viaggi all’estero continuavano ed erano frequenti.

P.B. L’America, l’ho girata tutta, facendo spesso colazione in una città e cenando in un’altra.

I viaggi erano un paio a settimana e mi piaceva moltissimo: gli aeroporti sono oggi quello che il porto era ieri. Nel frattempo continuavo la mia attività

di consulente, qui a Milano, dove ho sempre tenuto un ufficio, fin da giovane, in cui seguire i clienti, perché ho sempre pensato di non dovermi legare a uno specifico incarico, qualunque esso fosse. Nello stesso periodo ero anche nel Consiglio di amministrazione della Popolare di Milano, di cui in seguito sono stato nominato vicepresidente, poi presidente dal 1996 al 2001.

La Banca aveva filiali a Londra e negli Stati Uniti: ho fatto, per esempio, il primo collocamento di un’obbligazione sul mercato borsistico americano di una banca popolare italiana.

L’effervescenza era laggiù, quindi continuavo a viaggiare in America. In quegli anni ho anche organizzato alla Popolare alcuni incontri internazionali con la partecipazione di intellettuali e scienziati che vivevano all’estero, come Luigi Luca Cavalli-Sforza.

Il primo confronto internazionale tra il fondatore della genetica delle popolazioni, Cavalli-Sforza, e la sua scuola, e gli studiosi delle origini indoeuropee della nostra civiltà è stato fatto nel salone della Popolare. Oltre ai genetisti, c’erano linguisti come Ruhlen e Villar, archeologi come Renfrew e Lehmann, indologi come Sergent, filologi come Mallory e grandi “irregolari” come Bernal e il nostro Semerano.

Promuovere iniziative di respiro internazionale, al di là delle sovvenzioni alla Scala, mi sembrava il modo in cui un’importante banca “glocale” – di territorio, si direbbe oggi, per i territori del mondo – dialogava con la città. Ma Milano era già in declino: una città vivace, ma liquida: una liquidità mercuriale associata a una liquidità da palude.

Per non apparire troppo pessimista posso pensare, come certi materialisti dell’Ottocento, che in fondo nell’acqua stagnante può fermentare la vita…

L.G. Di Milano ha vissuto tutte le trasformazioni degli ultimi decenni.

P.B. Tutte. Ricordo le pecore in quello che adesso è appena fuori dalla seconda cerchia dei Navigli e che negli anni cinquanta era campagna. Sono nato a Ferrara, ma i miei genitori si sono subito trasferiti a Milano. Sono milanese anche come cultura, a tutti gli effetti: ho fatto le elementari in via Lorenteggio, un insediamento di immigrati, non ci capivamo

perché ognuno parlava il proprio dialetto.

Fino al 1992, la cultura diffusa a Milano era quella lombarda, “protestante”, ovvero univa sobrietà e responsabilità sociale e civile; poi da un lato l’immigrazione dal Sud di professionisti, avvocati, professori ha un po’ sgretolato questo nucleo, dall’altro nel 1992 è stata liquidata un’intera classe dirigente.

La città ha iniziato a diventare sempre più piccola, irrilevante, e l’asse si è spostato su Roma. Roma è già un po’ più aperta, ma siamo comunque lontani da Londra, la città più internazionale che abbiamo in Europa.

L’esempio più calzante di che cos’è Londra lo percepisci nel primo ristorante in cui ti fermi. Un vero microcosmo, dove l’inglese che senti è una lingua franca parlata da persone le cui lingue madri sono praticamente tutte diverse.

L.G. Dopo la presidenza della Popolare quali attività ha svolto? P.B. Quando sono uscito dalla Popolare ho ricominciato a fare il consulente, un’attività che chiamo banchiere privato. Mi occupo di strategie aziendali, di trasferire qui il mio sapere e le mie relazioni.

Infatti, nel mio vantaggio competitivo rientrano le relazioni che ho intrecciato negli anni con persone che appartengono alle élite dirigenti e bancarie degli altri paesi. A Milano ci sono i clienti, è però una rete locale ma debole, perché si fa fatica a scambiare, a creare meccanismi di reciprocità.

Quindi, uscito dalla Popolare, ho ripreso il mio lavoro originario seguendo clienti in Italia e all’estero e creando il mio gruppo, Charta Group – nome

che ricorda la Magna Charta –, il quale riunisce un insieme di società.