Continuo queste mie riflessioni sull’arte e l’attivismo considerando la prospettiva che da ragazzo mi ha fa fatto avvicinare all’arte: l’ingiustizia sociopolitica.

L’arte è in fondo la piena rappresentazione dell’ingiustizia politica, e diverse esperienze artistiche lo dimostrano.

La vita contemporanea rivisitata

L’arte può presentare caratteristiche della vita contemporanea in forma cruda, evidenziando ingiustizie o suggerendo tendenze o sviluppi che giustificano una resistenza. Non c’è bisogno di essere impegnati in una nozione superficiale di verità per capire l’intuizione del poeta dadaista Hugo Ball che afferma che: “Per noi, l’arte non è un fine in sé… ma è un’opportunità per la vera percezione e critica dei tempi in cui viviamo”.

Una forma di potere

Questa dimensione del potere dell’arte è stata dimostrata dalla nuova arte che ritrae il razzismo istituzionale e la supremazia bianca dell’Europa e dell’America contemporanea, e le risposte degli attivisti al razzismo istituzionale e alla supremazia bianca.

Alcuni esempi

Il ‘Cemetery of Uniforms and Liveries’ di Luke Willis Thompson alla Galerie Nagler Draxler di Berlino presenta, con potente concretezza, l’impatto dell’omicidio della polizia sulle famiglie. La mostra di Thompson consiste in due brevi filmati di familiari di inglesi neri uccisi dalla polizia. Vediamo i volti del nipote di Dorothy ‘Cherry’ Grace, Brandon, e del figlio di Joy Gardner, Graeme. Il filmato in bianco e nero da 16 mm costringe a fare i conti con la costante resilienza scritta sui volti di Brandon e Graeme. Costringe anche a prestare attenzione a dettagli che assumono un’importanza sproporzionata, data la nostra conoscenza di base: nel pulsare vigoroso di un collo, per esempio, vediamo una vita feroce e provocatoria di fronte alla violenza della polizia.

La Nomenclatura

La ‘Nomenclatura’ di Kameelah Janan Rasheed, rappresentata alla Forward Union Fair di New York nel dicembre 2016, coinvolge ventuno immagini di etichette tradizionalmente attaccate agli afroamericani: tra cui ‘American Negro’, ‘Free Africa’, ‘Person of Colour’ e ‘Black American’.

Le immagini, incorniciate in bianco e utilizzando lettere bianche su uno sfondo nero, evidenziano la mutevole e contestata auto-identificazione degli afroamericani o dei neri americani – e c’è una forza schietta in queste immagini, che allude al modo in cui tale nomenclatura è stata uno strumento di potere nella lotta contro la supremazia bianca.

Sia Thompson che Rasheed non si limitano a rivelare “fatti” preesistenti sul mondo. Forniscono nuove prospettive sugli attori delle lotte politiche – un modo diverso di vedere, per citare la frase di Berger. Queste installazioni ci ricordano che il commento di Luigi Ghirri sulla natura della fotografia – che è meno un mezzo per “offrire risposte” ed è “piuttosto un linguaggio per porre domande sul mondo” – si applica all’arte nel suo complesso.

Suggeriscono che una funzione dell’arte potrebbe essere quella di permetterci di vedere la nostra società più pienamente, possibilmente in un modo che spinga alla resistenza politica.