L’arte può riunire le persone, intorno alle aperture delle gallerie, agli eventi e alle discussioni. C’è l’idea che le comunità create dall’arte possono avere un potenziale politico, e che di conseguenza artisti e curatori dovrebbero lavorare per creare e rafforzare le comunità artistiche.

Arte e comunità politica: un’introduzione

Le pubblicazioni d’arte e le gallerie hanno aperto le loro porte al pubblico all’indomani dell’elezione di Trump, allo stesso modo in cui le case editrici (come Verso Books) hanno mostrato una rinnovata energia e urgenza nell’organizzare eventi. Si potrebbero citare numerosi esempi, ma gli eventi e-flux a New York – compreso il doppio lancio di libri sulle macchine e sull’intersoggettività a dicembre – hanno comportato discussioni particolarmente esplicite sul valore della comunità artistica per i progetti politici.

Le università statunitensi

Anche i dipartimenti artistici delle università si sono mobilitati, e forse sono stati più disposti a parlare in termini esplicitamente ideologici: un caso interessante è il simposio di un giorno della New York University a dicembre su “Sense of Emergency: Politics, Aesthetics, and Trumpism’, organizzato da Andrew Weiner, che ha riunito attivisti, teorici dell’arte, artisti e altri.

Facciamo qualche distinguo

Sono necessarie alcune note su questo impulso verso la costruzione di comunità. C’è il rischio che la corsa alla costruzione di collettivi avvenga senza lo sviluppo di un quadro di riferimento per la comprensione di eventi o azioni, e senza una sufficiente riflessione critica su chi è incluso all’interno della ‘comunità’ e chi è escluso.

In un brillante saggio pubblicato su thetowner.com dopo l’elezione di Trump, Elvia Wilk invita coloro che lavorano nell’arte contemporanea – molti dei quali fanno parte della “famigerata classe culturale internazionale” – a porsi queste domande critiche. “Abbiamo bisogno di costruire e mantenere reti di sostegno”, scrive Wilk.

Tuttavia, continua, “se stiamo facendo riunioni su ciò che possiamo fare, dovremmo prima di tutto usarle per discutere su chi siamo.

Quali voci mancano nei nostri spazi? Più avanti nel saggio commenta l’esclusiva mancanza di radici di gran parte della comunità artistica: “Esistiamo in sacche di aree per lo più urbane, e queste sacche si collegano direttamente ad altre sacche tramite viaggi e wifi, con un insieme spesso uniforme di principi culturali e gerarchie che si estendono attraverso di esse”. Ritornerò su alcune di queste contraddizioni della comunità artistica più avanti, quando si discuterà della complicità dell’arte nell’oppressione.
Se queste conversazioni critiche vengono avviate nello stesso momento in cui si cerca di consolidare la comunità, sembrerebbe che incontri del tipo descritto possano essere interventi politici significativi, nel nostro mondo di capitalismo avanzato il cui obiettivo rimane – nelle parole di Guy Debord – “ristrutturare la società senza comunità”.

Per lo meno, se gli eventi e le discussioni possono essere organizzati in uno spirito di calore e di solidarietà, potremmo vedere il sorgere di quella comunità a cui Giorgio Agamben alludeva una volta in modo ellittico.