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Se pensiamo a una scenografia ideale per la Salomè di Oscar Wilde certo non ci immaginiamo un cimitero monumentale. Eppure è proprio qui che si terrà lo spettacolo teatrale del capolavoro di Wilde: parlo del cimitero militare Germanico del Passo della Futa, al confine tra le regioni Toscana ed Emilia Romagna.

 Nella messinscena che si svolgerà qui canteranno la Soprano Stefania Renieri e l’arpista Annamaria De Vito.

La caratteristica principale di questa Salomè un po’ più magniloquente sarà l’assoluta novità della rappresentazione: si tratta di una messinscena itinerante, che è stata resa tale per consentire di scegliere una scenografia naturale per ogni diverso momento del dramma. La regia è di Filippo Frittelli.

Quando

Il 19 e il 26 ottobre alle 16.

Dove

Al cimitero militare Germanico del Passo della Futa.

Annunciata dall’Ansa, la notizia scuote i salotti, che per tradizione non associano alla nostra città meneghina una storia ebraica particolarmente rilevante. Non a Venezia, non a Roma, non a Ferrara, ma a Milano nascerà a Milano il Museo nazionale della Resistenza. Parola dell’attuale ministro dei Beni culturali e del sindaco di Milano. E’ stata eletta come sede la seconda piramide di Herzog in piazzale Baiamonti.

La piramide verrà realizzata di fronte a quella già esistente della Fondazione Feltrinelli.
    In aggiunta ai 2,5 milioni di euro stanziati in passato, dice Ansa, se ne stanzieranno altri 15.

La comunità ebraica di Milano

Al di là della valenza simbolica di Milano come polo aggregativo, va detto che la comunità ebraica di Milano conta oltre 7mila iscritti, ed è seconda solo a Roma per importanza. La storia di questa comunità si può trovare nel libro di Rony Hamaui, “Ebrei a Milano”, edizioni Il Mulino. Nè ghetti, nè cimiteri abbandonati, nè storie rilevanti di ghettizzazione pubblica o privata. Forse il motivo della scelta di Milano risiede anche in questo, nella attuale constatazione di zona neutrale e pacifica, e quindi in un omaggio indiretto alla città.

Capitale culturale

Ma non possiamo escludere, come già detto, Milano come polo culturale ormai imprescindibile per qualsiasi nuova struttura. Capitale degli eventi e finestra sull’Europa. Raggiungerla, per i cittadini internazionali, è diventato sempre più facile, complici anche le compagnie aeree low cost che la collegano al resto dell’Europa. Ma basta camminare per le strade di Milano per percepire la vocazione internazionale dei suoi abitanti.

Il museo nazionale della Resistenza potrà suscitare invidie dalle altre nostre Capitali, alcune delle quali giustificate. Però è un riconoscimento che, in fondo, abbiamo meritato.

Tutti noi abbiamo la tendenza a guardare le altre culture attraverso la lente della nostra. Anche se questo è naturale, può portare a malintesi quando si comunica e quando ci si relazione con persone che provengono da altre parti del mondo, e con cui dobbiamo condividere un’agenda. Io ho notato che soprattutto in un campo è difficile trovare accordo: le scadenze.

Per capire come un concetto apparentemente bianco e nero possa essere interpretato in modi diversi, bisogna prima capire come le diverse culture percepiscono il tempo.

Come percepiamo culturalmente il tempo

Le culture occidentali tendono a vedere il tempo come lineare, con un inizio e una fine definitivi. Il tempo è visto come un’offerta limitata, quindi le persone occidentali strutturano la loro vita, specialmente le operazioni commerciali, in base a tappe e scadenze. Non rispettarle potrebbe essere interpretato come una scarsa etica del lavoro o come una forma di incompetenza.

Altre culture percepiscono il tempo come ciclico e infinito. È più importante fare le cose bene e mantenere l’armonia, piuttosto che preoccuparsi di fare le cose “in tempo”. In India, per esempio, le scadenze sono viste come “obiettivi” da rispettare nel contesto di compiti e priorità concorrenti e del danno potenziale che un ritardo avrebbe su una particolare relazione.

Attenzione!

Questo non vuol dire che le culture orientate alle scadenze non si preoccupino di fare bene un lavoro o di coltivare le relazioni, ma fare il lavoro in tempo è il principale motore capitalistico per essere primi sul mercato. Spesso ha la precedenza sul fatto che le relazioni possano essere influenzate negativamente. Il tempo spesso è letteralmente uguale al denaro, in termini di costi, margini di profitto, e battere la concorrenza per la quota di mercato.

Quando queste diverse priorità (compito/tempo rispetto alla relazione) non sono chiare o non vengono prese in considerazione, il risultato sono incomprensioni tra i professionisti che possono portare a frustrazione, perdita di fiducia tra i team, obiettivi e traguardi mancati e persino sanzioni finanziarie.

Abbiamo parlato nelle scorse puntate dell’uccisione rituale comune a molte culture dell’antichità, e alla vicenda di Diana dei Boschi e dei sacerdoti di Aricia che si uccidono a vicenda per prendere il ruolo di capi della comunità.

Ma da dove arriva questa barbara usanza, che sopravvisse fino all’età Imperiale?

L’origine

Si narra che il culto di Diana Nemi fosse stato istituito da Oreste il quale, dopo aver ucciso Toante, re del Chersoneso Taurico (la Crimea) si rifugiò in Italia con sua sorella, portando con sé il simulacro della Diana Taurica nascosto in una fascina di legno.

Quando Oreste morì, le sue ossa furono trasportate da Aricia a Roma e sepolte davanti al Tempio di Saturno, sul colle capitolino, accanto al Tempio della Concordia. Il cruento rituale che la leggenda attribuiva la Diana taurica è noto a chi conosce i classici: ogni straniero che approdava a quelle sponde veniva immolato sull’altare della dea.

Trasportato in Italia, il rito assunse una veste meno sanguinaria: nel santuario di Nemi cresceva infatti un albero di cui era proibito spezzare i rami.

Solo a uno schiavo fuggitivo era concesso di cogliere una delle sue Fronde, e se riusciva nell’impresa, questi aveva il diritto di battersi con il sacerdote. Se l’avesse ucciso, avrebbe potuto regnare in sua vece con il titolo di re del Bosco.

Stando a quanto dicono gli antichi proveniva da quell’albero la stessa fronda d’oro che Enea colse per ordine della Sibilla prima di entrare nel mondo dei morti.

Lo schiavo

Simbolicamente, la fuga dello schiavo rappresenta la fuga di Oreste, mentre il combattimento con i sacerdoti ricorda i sacrifici umani diretti alla Diana Taurica. Ricordiamo come Caligola, ritenendo che il sacerdote della Diana Taurica fosse rimasto troppo a lungo in carica, avesse assoldato un mercenario per ucciderlo; abbiamo poi la memoria di un viaggiatore dei tempi degli Antonini che riporta dell’esistenza ancora intatta del rituale dell’uccisione. 

Ma Diana Nemorensis non era l’unica divinità che si venerava in quei boschi…

(continua)

Sulla sponda settentrionale del Lago di Nemi, tra i Colli Albani e a sud di vasti boschi, sorge l’odierna città di Nemi. Anticamente invece della cittadina dimorava qui un santuario di Diana Nemorensis, la Diani dei boschi, circondato da un bosco sacro. Il Boschetto veniva chiamato a volte anche “Boschetto di Aricia”, anche se in realtà la cittadina di Ariccia si trova a 5 km di distanza, ai piedi del Monte Albano. 

Il bosco sacro

In quel Bosco sacro cresceva un albero intorno al quale durante durante i giorni e le notti era possibile vedere aggirarsi una figura truce. Aveva una spada sguainata nella mano destra e si guardava intorno con perenne sospetto.

Come se temesse che un aggressore sarebbe arrivato da un momento all’altro.

Questa figura era un sacerdote e un omicida. Sarebbe stato destinato a cadere prima o poi sotto i colpi del nemico ovvero il prossimo sacerdote. I nuovi candidati al sacerdozio tenevano l’incarico solo uccidendo il proprio predecessore, e occupandosi del sacerdozio finché non sarebbe arrivato qualcun altro a sostituirli.

Il bosco era abitato non solo dai sacerdoti ma anche dei pellegrini che venivano a visitare il luogo teatro di queste cruente uccisioni rituali.

Diana dei boschi

Questa usanza è stata documentata da diversi viaggiatori e ormai risulta assodata. Ma come è possibile che sopravvivesse anche in un’epoca in cui la civilizzazione latina raggiungeva dei picchi considerevoli per il mondo antico, ma soprattutto che sopravvivesse fino all’età Imperiale?

Oggi ci può sembrare davvero inspiegabile. Cerca di dare una risposta a questo quesito lo studioso britannico James George Frazer nel suo testo Il Ramo D’Oro.

Frazer studia la storia del culto della Diana Nemorense, una dea che grazie alle offerte votive ritrovate in loco è stata identificata come una portatrice di buona fortuna, ma anche facilitatrice dei parti, per le donne. 

Pare che il fuoco fosse l’elemento principale del suo rito, e sono state ritrovate diverse statue e bronzo della dea che ragiona torcia nella mano destra alzata. Se ci pensiamo, Vesta è la versione della dea Diana che sta sul focolare domestico, fondo come il tempio di Vesta nel foro romano.

Ma perché questi sacerdoti erano vincolati a trucidarsi a vicenda per tutta la vita? Nella prossima puntata vedremo le origini di questo rituale così macabro.

Come aveva puntualmente notato Carl Gustav Jung, nella storia umana esistono degli elementi ricorrenti.

Non parliamo solo di storia moderna ma anche di storia antica, ma soprattutto mitologia e raffigurazione religioso-folkloristica. Questi elementi ricorrenti esistono anche all’interno di ognuno di noi, sosteneva Jung, e si chiamano archetipi dell’inconscio collettivo.

Le uccisioni rituali

James George Frazer si occupa di un archetipo, benché non lo chiami con questo nome, ovvero quello dell’uccisione rituale. Un esempio sorprendente di una monarchia limitata da uccisione rituale ci viene dal potente regno medievale dei Khazari, nella Russia meridionale. Qui i sovrani venivano messi a morte allo scadere di un determinato periodo, oppure quando una calamità indicava il declino dei loro poteri.

I disastri, le inondazioni, le siccità e le carestie venivano infatti viste inconsciamente come malattie dello stesso sovrano. A noi classicisti questa considerazione richiama una memoria epica: la città di Tebe funestata dalle piaghe perché il suo sovrano si è comportato in maniera impura – anche se in realtà Edipo soddisfaceva il suo Fato, ma questo è un altro discorso.

Anche in alcune popolazioni dell’Africa, riporta Frazer, si svolgono rituali analoghi. Ad esempio l’usanza nel Bunyoro di scegliere ogni anno un sostituto del sovrano da un determinato clan che avrebbe impersonato il re, avrebbe abitato con le vedove nel suo tempio, e dopo una settimana sarebbe stato strangolato.

Sacee babilonesi

L’usanza è parallela alla festa babilonese delle Sacee, dove un sovrano fittizio veniva rivestito con abiti regali, frequentava le concubine del re, e dopo 5 giorni di regno veniva fustigato e messo a morte. 

Anche in altre tribù dell’Africa si è assistito alla messa a morte periodica dei re, in alcuni casi con una sorta di sfida pubblica da parte degli uomini più vigorosi, che avrebbero sfidato in un combattimento il sovrano stesso. 

Insomma, fare il re non era proprio una passeggiata, in diverse tribù dell’antichità!

Ma non pensiamo che sia un tribalismo da cui siamo esenti: accadeva una cosa simile anche nella Grecia antica.

(Continua)

James George Frazer  nacque a Glasgow nel 1854 da una famiglia scozzese del ceto alto.

Fin dall’adolescenza venne destinato alla professione di avvocato che mai però volle praticare.

Frazer, un avvocato mancato

Il suo interesse principale consisteva infatti nelle cosiddette culture primitive, come venivano indicate nei paesi di matrice anglosassone tutte le discipline antropologiche.

Perché stiamo parlando di Frazer?

Perché nel corso di quest’anno vorrei condividere con voi alcune riflessioni che ho fatto in seguito allo studio di questo ex professore di antropologia dell’università di Liverpool, che in realtà a mio parere fu anche artista e storico allo stesso tempo.

Opere

La sua produzione inizia con lo studio della cultura totemica in Australia e Nord America ma prosegue su filoni disparati.

Quello che più colpisce i neofiti della materia quale io sono è la tendenza di Frazer a collegare sempre con magistrale precisione la cultura antica con il folklorismo moderno. Se oggi può sembrare una tendenza comune, vi ricordo che siamo intrisi di Antropologia fin dalle scuole dell’obbligo, mentre all’epoca il sentire comune era diverso.

Vigeva infatti una ferrea distinzione tra ciò che era cultura classica (greca e latina, di solito), studiabile e culla della nostra stessa civiltà, e invece i popoli primitivi di cui sopra.

Il nuovo approccio di Frazer

Oggi l’approccio frazeriano viene studiato ma non è più quello dominante, nell’ottica dell’equiparazione di tutte e culture, anche  di quella cosiddetta occidentale o meglio Atlantica.

Tuttavia penso che l’approccio di Frazer serva soprattutto a chi con lettere o storia antica non ha molto a che fare.

Per un cultore amatoriale della materia, diciamo lo stesso culture che legge il Signore degli Anelli, studiare Frazer è l’apertura archetipica di diverse parentesi.

Ci dimentichiamo spesso che non siamo dei cultori di tutte le materie e che a volte anche una versione non proprio aggiornata a livello accademico può essere comunque molto più pregiata in quanto è di grande valore divulgativo.

Ci vediamo nella prossima puntata con le uccisioni rituali!

Stiamo tirando le somme in questi giorni, in cui il periodo del primo lockdown sembra abbastanza lontano per trarre delle conclusioni di massima sulla storia dei consumi.

La domanda numero uno, quando si parla di eBook, è sempre stata: ma la gente si abituerà al nuovo supporto?

Non rimarrà viva una forma di predilezione nostalgica per le pagine fruscianti, profumate di stampa fresca?

Ebbene, la risposta che ci ha dato questo periodo di reclusione forzata è: forse no.

Lo dimostra chiaramente il caso Bruno Editore.

Il caso Bruno Editore

Come riporta l’Ansa, l’editore ha fatturato un 202% in più per la vendita di libri elettronici. Dai libri sulla crescita personale, a quelli tecnici, alla narrativa: quello sopra riportato è il dato delle vendite dei primi nove mesi del 2020, comparato allo stesso periodo nel 2019. 

Un crescita che lascia molto su cui riflettere, anche se, dal mio punto di vista, sarebbe più interessante vedere il tipo di titoli che vengono venduti. Personalmente, ritengo l’ebook un ottimo strumento, sicuramente più ecologico, anche se sussistono diversi dubbi circa lo smaltimento e l’approvvigionamento di risorse.

Ma non sono un esperto, per carità. Quel che conta però è anche l’esperienza unica e ineliminabile del lettore: per me, il libro è prima di tutto cartaceo. Il libro è un oggetto, che viene depositato su uno scaffale e lasciato lì. Un oggetto che accompagna la vita quotidiana, o lo studio, che ricorda momenti dell’infanzia o della prima giovinezza, o degli apici ideologici di qualche settimana prima.

Il processo di digitalizzazione del libro

Insomma, l’avvento dell’ebook, oltre a una rinnovata passione per alcuni temi abbandonati dalla filosofia e prima monopolizzati dalla religione (ad esempio, la crescita personale), significa proprio un’esperienza di fruizione diversa.

Forse i libri cesseranno di essere uno status. Chi della mia generazione non ha vissuto cosa significa “avere una biblioteca a casa”?

Forse la lettura dei libri diventerà quello che dovrebbe essere: una eco sulla persona, un positivo ritorno della lettura in tutti gli aspetti della vita.

Non sto dicendo che con il libro cartaceo non fosse così, e non sto dicendo che mi omologherò a questa tendenza.

Però, forse, stiamo assistendo a un vero e proprio ripensamento del concetto di crescita personale.

Spero di assistervi.

 

Dei fini analisti d’intelligence stanno senz’altro già lavorando a quest’enigma, ma vorrei smarcarmi per un attimo dal Dpcm, Covid e argomenti simili, perché davvero in questi giorni non se ne può più.

Quindi, mi concentrerò sui video che ho visto di recente in occasione del 75esimo anniversario della dittatura nella Corea del Nord.

Bombe e pianti

Innanzi tutto, una piccola nota per gli appassionati: Kim Jong Un non sembra morto, e nemmeno in coma, a differenza di quanto si vociferava. Anzi, è vivo e in ottima forma, tanto da accompagnare con le sue solite calde parole la mostra di un enorme missile balistico.

A deterrenza e autodifesa, dice il leader della Corea del Nord, ma nel sangue occidentale si scatenano sempre dei piccoli brividi, soprattutto considerando l’apparente volubilità del dittatore.

Soprattutto, perché a un certo punto del discorso inaugurale, il presidente si è messo a piangere e si è scusato per non essere riuscito a garantire la vita che aveva promesso a tutti i coreani.

La situazione diplomatica

Parole di amicizia sono state spese per la sorella Corea del Sud, il cui nuovo leader ha già incontrato Kim. 

Agli statunitensi, che pure Kim Kong-un ha già incontrato durante l’ultima visita di Trump, stavolta non sono state rivolte parole particolari. O meglio, non sono state rivolte minacce, il che è comunque un’ottima cosa.

Nonostante questo, non possiamo certo stare completamente tranquilli, perché le sanzioni statunitensi sono ancora in vigore, e un riavvicinamento economico e politico tra Nord Corea e Cina sembra sempre più plausibile. 

Quello che non sembra chiaro è se Kim Jong-un continuerà o meno a governare. Le lacrime potrebbero essere un segno di resa, un estremo saluto alla nazione… Non glie lo auguro assolutamente, sto solo formulando ipotesi.

In effetti noi civili percepiamo i risvolti di queste operazioni strategiche spesso solo dopo anni.

Quindi, staremo a vedere cosa ha in serbo per noi la Corea del Nord.

 

Ho visto di recente l’ultimo film di David Copperfield di Dickens al cinema con Hugh Laurie nel cast. 

Un  “La vita straordinaria di David Copperfield” – questo è il titolo originale – pop e multietnico per il regista scozzese Armando Iannucci.

Nonostante il cognome, lo stile del regista rispetta appieno la sua origine british. In primis, per l’ironia costante e sempre sottesa che accompagna tutti gli sketch di questa divertente commedia. 

In secondo luogo, per un gusto quasi iconografico nella resa di personaggi unici nel loro genere, “parlanti” perché interpretano precise virtù morali. La madre di David, la remissività, la zia (Tilda Swinton) il rigore, il padre, l’algidità. 

 David è interpretato da Dev Patel, che già ci aveva regalato una performance densa di pathos in The Millionaire.

Un David Copperfield drammatico, ma divertente

Qui, il suo ruolo è sempre drammatico, ma ben più scanzonato. Sicuramente, molto più scanzonato rispetto ad altri adattamenti di Dickens, cupi e con tinte fosche.

Dickens al cinema: al di là del tetro

In realtà, Iannucci conosce l’autore del romanzo e riesce a trasformarne la tetraggine – perché si parla in fondo di una storia reale di reale sfruttamento minorile – in una vicenda tutto sommato divertente.

E la sfida era difficile, visto che il grande pubblico ormai associa Patel prevalentemente al ragazzino indiano di The Millionaire. 

Il rischio principale, se si può parlare di rischio, era quello di un Oliver Twist alla Polanski, con inserti di duro realismo. In realtà, l’ironia era comunque sempre presente nel grande autore inglese, e non è facile per i moderni percepirne il reale impatto sul pubblico dell’epoca.

In generale, possiamo dire che nella figura dell’eccentrico padre dell’innamorata di David Copperfield (l’alcolista, per intenderci) abbiamo una prova del fatto che siamo stati in grado di percepire una forte tragicità, senza rinunciare a un gusto per la risata genuina.

Quando i personaggi gli nascondono il vino, i bicchieri, o il cestino dei liquori, c’è una vera e propria pantomima di caccia al tesoro. In realtà, parliamo di un personaggio tragico, che tragicamente compromette il destino della propria famiglia per il suo problema di intemperanza.

Ma, in fondo, poco importa: quel che importa è la generica e piacevole sensazione, quando arrivano i titoli di coda, di aver visto tutto sommato un bel film. Multietnico, anche. Ma un bel film.