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Trovo affascinante come le branche del sapere più volatili tendano ad adottare nomi fantasiosi per definire le proprie nuove conquiste epistemologiche.

Il conversation marketing

Detto anche conversation marketing, è un tipo di promozione commerciale che si basa sul discorso diretto e informale con il destinatario delle informazioni pubblicitarie. Agli addetti ai lavori che scomodassero la loro scienza rabboccando le mie definizioni imprecise: pubblicità è nel senso comune il termine che meglio definisce tutte le strategie di comunicazione con il destinatario futuro, presente e potenziale di una vendita.

Pubblicità, devo ricordarlo, è però già di per sé un concetto che nel marketing è quasi obsoleto (come cambiano in fretta le glorie del mondo..).

Perché informale

L’informalità non è in realtà l’unica caratteristica del conversation marketing.

Il rapporto che nel marketing nasce come massificato tra ideatore, messaggio e destinatario, nel c.m. tende a trasformarsi in un tentativo di rendere il rapporto più privato. Da qui, più “conversazionale”. Ma il tentativo non è unicamente nel messaggio. A differenza di quanto dicono i semiologi, il medium in questo caso non è il messaggio, o meglio se lo è, non ci aiuta a capire la differenza tra il precedente marketing e questo. Questo marketing, semplicemente, ti chiede cosa vuoi. Dalle chat bot che indagano conversando con il cliente, all’utilizzo di big data lavorati che orientano le proposte fatte a un target, le personalizzano e le indirizzano nei momenti e modi giusti.

Il sogno del marketing che si avvera

Per ora siamo di fronte a uno dei sogni del marketing che si avvera: Il messaggio massificato che doveva sembrare rivolto “proprio a te che stai leggendo” ora diventa realmente rivolto ” a te che stai leggendo”.

Il che può sembrare inquietante, ma sicuramente è epocale.

 

Geniale la trovata marketing di Renzo Rosso, fondatore di Diesel, la nostra casa di moda con sede nella veneta Breganze.

Come trasformare un fenomeno che mina alla stabilità stessa del proprio brand, quale è la falsificazione? Ma è semplice.

Auto-falsificarsi il brand

Così ha fatto Rosso, aprendo un negozietto “Deisel” in Canal Street, ChinaTown. Se l’abbigliamento da strada newyorchese non guadagnerà magari in incremento da questa capata delle multinazionali della moda, e per di più italiane, lo faranno i fortunati acquirenti dei prodotti Deisel. Infatti l’inserimento di telecamere agli angoli dello shop ha consentito di registrare le reazioni diffidenti dei clienti. Cosa che non ha impedito di comprare loro gli oggetti, molto simili al brand Diesel originale, con lievissime modifiche e un ovvio livellamento sui prezzi della zona. Quindi, molto bassi.

Anche l’assetto del negozio ha voluto rispettare il disordine e la scarsa organizzazione tipici dei negozi di una certa (bassa) caratura. Ma il marchio falsificato non ha fermato i clienti dall’acquisto.

Come ipotizza Rosso, gli stessi oggetti acquisiranno un valore di mercato molto superiore quando si capirà che erano pezzi unici, e gli utenti li rivenderanno su internet.

Una piccola perdita di fatturato, quindi, per via dell’abbassamento considerevole dei prezzi, in nome di una lungimirante scelta di marketing futura.

Certo, una multinazionale della moda può sicuramente permetterselo senza speculare troppo sull’esito favorevole o meno dell’iniziativa.

Quel che possiamo dire con occhio semiotico è che auto-taroccarsi per combattere in veste pubblica il taroccamento è un’arma a doppio taglio. Da un lato, dimostrare che prodotti taroccati possono essere “buoni”, sarà una necessaria conclusione. Dall’altro, l’autoironia in comunicazione sembra che premi sempre, forse soprattutto negli ambiti artistici (quindi anche della moda). Laddove la fidelizzazione non si basa forse su principi puramente fideistici, ma piuttosto su adesioni entusiastiche e irrazionali.

Alla faccia della scelte consapevoli di brand.

(articolo originale letto qui)