L’ambiente universitario va tenuto monitorato. La questione dei corsi in inglese al Politecnico di Milano non fa che aprire, come molte altre questioni universitarie, uno spaccato della classe dirigente italiana.

Questo è quello che avrei detto, in una situazione simile, negli anni ’80. Quando ancora le università erano a un soffio dall’essere massificate, quando ancora molti corsi si svolgevano a ciclo unico. Mi sentirei di dire che il prestigio dell’università, a livello comune, non è calato, ma compirei un’appropriazione indebita di un diritto a valutare che non spetta a me.

Ora, oggi più che spaccato di classe dirigente, possiamo forse parlare di cartina al tornasole della società. Più appropriato, vista come già detto la massificazione dell’università. E poi, sul fatto che la classe dirigente sia italiana, ci sono alcune parole da spendere.

Solo e soltanto corsi in inglese

Per capire la portata della sentenza del Consiglio di Stato, che ha negato al Politecnico di Milano il diritto di tenere i suoi corsi soltanto in inglese, vanno considerati diversi aspetti. Non tratterò di quelli logistici, che prevedono secondo me un dibattito piuttosto sterile: quando si decide per un provvedimento, tutte le misure per attuarlo vengono prese a posteriori, con alcuni piccoli sconvolgimenti, una fase di rodaggio, e poi l’applicazione.

Sebbene molti abbiano trovato l’esultanza dell’Accademia della Crusca del tutto anacronistica, io ritengo di vedere in questo provvedimento un guizzo di autorevolezza notevole.

Oggi nella “classe dirigente”, come la si chiamerebbe in senso marxista, l’inglese non è ossessione ma ossequio dovuto, quasi inintellegibile però. Nessuno loderà costumi anglosassoni, no, è ben compreso che questa lingua barbarica è un veicolo di spostamento delle nostre maestranze e illuminati concetti all’infuori della madrepatria.

Come la conoscenza del francese all’inizio del secolo scorso? Penso che la vedano così i promotori dell’internazionalismo esclusivo, ovvero quelli che promuovono i corsi al Politecnico solo in inglese.

Ma l’inglese di oggi non è il francese del secolo scorso. Ricordo che un cinese fatica a parlare in inglese, in molti casi non lo sa. Un emiro arabo, molto spesso a fatica. Un magnate sudamericano, lo ostenta magari. Stiamo procedendo a stereotipi, ma il mio punto è: se l’inglese non è più veicolo univoco di internazionalismo, perché non in tutto il mondo è lingua veicolo… Che senso ha l’eurocentrismo del metterlo come unica lingua?

Il rischio è sempre la parvenza di ossequio versa un’altra sovranità nazionale. E non il legittimo desiderio di internazionalismo, che di per sé è neutrale.